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giovedì 28 febbraio 2013

buon ristorante, triste carta dei vini...la regola che odio (e che mi fa inc...re) di Gilberto Grigliatti


Questo intervento di Gilberto Grigliatti è figlio dell’idea di network che Massimiliano Montes, a forza di insistere, è riuscito a far entrare nella mia dura testa piemontese.
Gilberto, Torinese per caso, è un raffinato gourmet, grande conoscitore di chef, ristoranti, tecniche di cucina, prodotti alimentari, materie prime e vini. L’elenco non è per ordine di importanza, anzi lui si lamenta sempre dell’imbarazzante non chalance con cui ristoranti anche prestigiosi sottovalutano la carta dei vini, come se non fosse un alimento ma tutt’al più, nel migliore dei casi, un consumo di lusso e quindi legato ai brand.
Gilberto ci ha gentilmente concesso il suo post pubblicato su isimposium ieri e ne abbiamo subito approfittato perché da sempre mi incuriosisce la sua visione del vino e della cucina come entità inscindibili.
Per dirla con Bruno Lauzi se ”i Piemontesi sono Brasiliani con la nebbia nella testa” Gilberto è uno dei pochi a cui la nebbia si è diradata ed è un mix di simpatia, cultura, generosità, intelligenza, lucida sincerità che mai sfocia in spocchia.
Luigi



Buon ristorante, triste carta dei vini...la regola che odio (e che mi fa inc...re) di Gilberto Grigliatti 

Cappellaci di bue, Ristorante Vo, Torino
Questa e’ purtroppo la regola imperante in molti ristoranti.
Non la capisco e non la sopporto più: Non denota coerenza nella gestione del buon ristorante.
Mi chiedo cosa abbiano in comune una buona cucina, una cucina di ricerca di materia prima, una cucina che rispetta la storia, una cucina che innova con una selezione di vini triste, che non denota una ricerca ne sul territorio ne altrove, che in alcuni casi non ha relazioni con nessuna AOC o con la cultura enologica di una regione.
Una carta dei vini basata, a differenza delle scelte fatte in cucina, sul convenzionale e sull’omologazione del gusto.

Atmosfera rustica: Cotechino con purée, ‘Semplicemente Vino, Bellotti Rosso’. Rist.Contesto Alimentare, Torino.
Materia prima cucinata in maniera fine, elegante e leggera abbinata a vini molto alcolici, molto pesanti e spesso indigesti: in una parola ‘non gastronomici’, nel senso che non accompagnano il commensale durante una buona cena in paradiso, bensì lo accompagnano spesso verso una notte insonne con problemi di digestione.
Ripeto sempre che oggi ad una ricerca colta e profonda degli ingredienti in cucina non corrisponde la stessa ricerca per la carta dei vini.
Lo chef si impegna per cercare ad esempio, l’ultimo contadino che coltiva i veri carciofi viola di Albenga.
Come mai per la carta dei vini non mi propone l’ultimo vignaiolo che vinifica il Rossese in maniera artigianale? Oppure l’ultimo vignaiolo che vinifica il Trebbiano d’Abruzzo in maniera artigianale nella sua zona?
Va da se che la vinificazione artigianale e’ quella che rende la vera personalità di un vitigno, di un terroir e sopratutto del millesimo. (quando dico vinificazione artigianale dico: agricoltura senza interventi chimici, e vinificazione senza chimica. In una parola senza lieviti selezionati!).
Perché dovrei essere interessato ad un Barolo (vitigno Nebbiolo) di colore scuro con profumo e gusto di Cabernet Sauvignon? O ad una Garganega che assomiglia ad uno Chardonnay di Meursault mal vinificato?
Che tipo di cultura del vino e’ mai questa? Che tipo di cultura gastronomica e’ mai questa?
NON MI APPARTIENE E NON MI INTERESSA!
E allora?
E allora forza! Un po’ di curiosità, un po’ di voglia di ricerca anche per la carta dei vini affinché non sia banale, fotocopiata ne griffata a tutti i costi!
Voglia di dare piacere al commensale anche nel bicchiere oltre che nel piatto!
Bisognerebbe prendere esempio da 
El Coq. Un giovane ristorante che non segue le regole e che segue solo il suo istinto con obiettivo solo la qualita!
All’inizio di Febbraio ha organizzato la cena unica ed irripetibile ‘thirtycreativetouches’ con gli chefs Ryan Clift e Ryan Flaherty, ne parlo 
qui. Grandi chefs, grande cucina, prodotti fantastici provenienti da migliaia di chilometri di distanza come da poche centinaia di metri.

El Coq sommelier, Marco Locatelli.
Per i vini Lorenzo ed il suo sommelier Marco Locatelli hanno scelto di stare in Veneto scegliendo il massimo del loro terroir:
-La Biancara di Angiolino Maule: uno degli ultimi vignerons dell’AOC Gambellara a vinificare il vitigno Garganega alla grande! Conoscete l’AOC Gambellara? Sapete chi e’ il più importante produttore della zona? E’ l’az. Zonin, più grande produttore di vino italiano. Senza nulla togliere a Zonin (ha fatto la storia del vino in Italia), i grandi vini a Gambellara li fanno Angiolino e due o tre altri suoi colleghi.

Daniele Portinari introducing his Tai Rosso to Mr. Roy Paci.
-Daniele Portinari: giovane vigneron della zona dei Colli Berici. La sua specialità e’ il Tai Rosso (vitigno locale, tocai rosso). E’ un grandissimo rosso, fragrante, dalla beva voluttuosa ed appagante: incita all’esagerazione. Era per me il miglior vino degustato a Vinatur 2012, ne parlo qui.

Colorful Verdugo in action at El Coq’s dinner. 
-Franco Masiero: il suo Verdugo proviene da un piccolo vigneto Merlot nelle Colline Trissinesi. Un grandissimo, bontà e piacere unici ed indimenticabili. Un prodotto di classe. Paolo Parisi, seduto di fianco a me, mi dice: ‘questo vino mi ha commosso! E’ uno dei migliori Merlot italiani!’.
Replico: ‘ Paolo, perché porci dei limiti? Diciamo quello che veramente pensiamo: E’ IL MIGLIOR MERLOT ITALIANO!’. Che cavolo!
Abbiate il culto della qualità del grande artigianato anche per i vini oltre che per la materia prima della cucina!

mercoledì 27 febbraio 2013

Montpellier interno giorno II°




Montpellier interno giorno. Motore. Ciak 2°. Azione
Dal lunedì avevo adocchiato una coppia di persone appostate al loro banchetto, lui anziano capelli bianchi lunghi effetto galleria del vento, camicia bianca da rocker e jeans azzurro pallido e birkenstock, lei più giovane vestita con un maglione coloratissimo, etichette dei vini coloratissime.
Un arcobaleno nel bigio della sala 6 dell’hangar di Millesime bio.
Li ho sfiorati decine di volte ma c’era sempre qualcun’altro da visitare, salutare, assaggiare.
Finch’è abbandonato dai miei compagni mi sono avvicinato e ho assaggiato questo Condrieu.
Una denominazione piccolissima (era la più piccola di Francia sino a qualche anno fa) .
Valle del Rodano a sud di Vienne.
Il Condrieu è un bianco a base viognier ed io non so perché ma amo i Viognier (forse perché sono molto untuosi e ricchi,  “bien charnu” e talvolta indugiano in morbidezze caramelliche).
Il signor Henri Montabonnet me ne offre uno da una bottiglia con etichetta rossa, un 2010, bene! mi dico è due giorni che assaggio grands crus di Borgogna del 2011 (alcuni decisamente indecifrabili) e un mare di campioni da vasca del 2012 (altrettanto indecifrabili).
Vigne giovani ci tiene a dirmi con estrema sincerità e poi aggiunge che a loro piacciono i vini freschi.
A me è piaciuto parecchio il Condrieu da vigne giovani (poi bisogna vedere cosa intendono, perché per i Francesi le vigne sono giovani sino ai quarantanni).
Fresco e minerale, ricco, con orizzontalità decisa e grande sapore.
Se lo trovate in giro merita un assaggio più calmo del mio.
Kampai

Luigi 

martedì 26 febbraio 2013

I vini di Fulvio Bressan di Massimiliano Montes


Questa prima presenza di Massimiliano su gli amici del bar, merita una piccola introduzione.
Da oggi è iniziato uno scambio culturale (cioè loro daranno cultura al nostro palinsesto, noi boh…) con Gustodivino il blog magistralmente gestito (non come questo in perenne preda dell’anarchia) da Massimiliano Montes.
Massimiliano mi è simpatico perché è Siciliano ed io sono affetto dal “mal di Sicilia”, inoltre è un entusiasta che esercita la generosità e l’onestà culturale (doti rare se non introvabili) e infine la sua idea di fare sistema ha incuriosito sia me sia Niccolò.
Brevemente vi spiego cosa succederà (o cosa dovrebbe succedere vista la scarsa attendibilità degli attori in gioco, noi de Gli amici si intende):
Gustodivino e gli amici del bar si scambieranno dei post l’un altro e li pubblicheranno contemporaneamente sui due blog (Massimiliano ha un gran coraggio a fare questo salto nel buio) per fare network, sistema.

Per intorbidire ulteriormente le acque, come fanno i pesci gatto in caccia, vi annuncio anche che la redazione de Gli amici del bar, proprio per simulare un bar gremito e vociante, si è espansa di altre due unità della cui identità per ora manteniamo stretto riserbo.
Buona lettura
Luigi 

Tra i vini assaggiati al Vi.Vi.T, al padiglione 11 del Vinitaly, lo scorso anno, quelli di Fulvio Bressan sono stati una rivelazione.
I suggerimenti degli amici appassionati e qualche informazione carpita in rete, mi hanno spinto diritto al suo banchetto.


In questo caso “banchetto” è un termine appropriato, perché è proprio l'impressione che dava davanti a quell'omone grande e grosso che mi sorrideva simpaticamente. Il gigante dei fagioli di Topolino, questo mi ricorda Fulvio Bressan.
La sua filosofia è bellissima, e lui è un comunicatore d'eccezione: “Fare il vino con i lieviti selezionati è come fare un figlio con gli spermatozoi di un altro” esordisce, lasciandomi ammutolito ad ascoltarlo. “Il vino naturale inizia in vigna. Qualsiasi roba chimica che io metto, finisce nel grappolo, e da li nel vino. È poiché io sono il primo fruitore di ciò che produco mi darebbe fastidio bere quelle schifezze.”
Chiaro. Chiarissimo... più chiaro di così non si può.
“E in cantina vale la stessa regola: niente schifezze chimiche e nessun tentativo di manipolare l'aroma del vino con enzimi e robe del genere.”




Ma come sono questi vini naturali di Fulvio? Capisco che non è un descrittore tecnico, però la prima parola che mi viene in mente è buonissimi. Subito seguita da inebrianti. 
La famiglia Bressan coltiva viti a Farra D'Isonzo, Gorizia, sin dal 1726. I vigneti Bressan si trovano a circa 50 metri sul livello del mare, su colline di ghiaia fluviale adagiata su argille e marne arenarie, in prossimità del fiume Isonzo, protette dall'arco delle Alpi Giulie.
 I 25 ettari complessivi sono vitati, per 20 ettari circa, a Schioppettino, Friulano, Malvasia, Ribolla Gialla, Verduzzo, Merlot, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, Pignolo. 


I vini sono tutti di qualità medio-alta, ma quelli chi i hanno colpito di più, magari per una mia predisposizione naturale o per la sequenza di assaggi già effettuati in precedenza, sono senza ombra di dubbio lo Schioppettino, il Pignol e il Pinot Nero, tutti dell'annata 2009.
Lo schioppettino, o Ribolla Nera, è un vino di ampia intensità e corpo. Di colore rosso rubino, non completamente penetrabile dalla luce. Al naso rivela un misto di aromi di piccola frutta rossa e ribes scuro, seguiti da ricordi di amarena e da strani sentori di pane caldo appena sfornato. L'insieme è caldo e avvolgente. Il palato è acido senza eccessi, consistente, e con una fine tessitura tannica. La retrolfazione richiama il ribes nero ed i vaghi sentori di pane, con una lunga e piacevole persistenza.


Il Pinot Nero, nella sua enorme variabilità espressiva, riconosce in queste terre friulane un suo profilo abbastanza tipico. Di colore lievemente più intenso, rispetto alle tradizionali trasparenze a cui ci abitua questo vitigno, accomuna ai prevedibili aromi di piccola frutta rossa e lampone, sentori lievemente speziati e un fumé cinerino. Al palato è sottile ed elegante, con tannini appena accennati, e un finale di media persistenza che ci riconduce agli aromi di apertura.

Il Pignol si presenta rosso rubino, poco penetrabile, con sfumature porpora. Il naso è segnato da sottili speziature che ricordano il pepe, la noce moscata e i chiodi di garofano. Al palato è intenso ed avvolgente, con un'acidità degna di menzione. La retrolfazione suggerisce mora, lampone, ribes con ritorni speziati. Il finale è piacevolmente lungo.      



Azienda agricola BRESSAN
Via Conti Zoppini, 35
34070 FARRA D'ISONZO (Gorizia)
Friuli - Italy
Tel. ++39 0481 888 131
Fax ++39 0481 88 98 24 // 0481 88 81 31
Info: bressanwines@tin.it


lunedì 25 febbraio 2013

Filtrazioni: esperimenti. di N. Desenzani



L’idea di confrontare lo stesso identico vino nella versione filtrata e non, nasce nei commenti a questo post di Giovanni Stefano Menti. Argomento ripreso qui e qui.
Il fatto che chi degusta si preoccupi del processo di produzione di quello che sta bevendo stranamente viene malvisto da molti. L’imparzialità viene impugnata come fosse la via per l’obiettività e si afferma che il degustatore dovrebbe solo assaggiare bendato, possibilmente dopo che gli sia stato svuotato il cervello con una terapia Scientology, tolte le pulsioni sessuali, desensibilizzato agli effetti dell’alcool, tolta la memoria, lasciato solo un enorme dizionario di descrittori nella sua mente e la iperumana capacità di collegarli a ciascuno dei miliardi di cellule sensibili della lingua e di tutto il cavo orofaringeo.
Quindi possibilmente dovrebbe essere messo in ambiente asettico a temperatura controllata, in silenzio. Solo allora potrà usare sé stesso come strumento di misura assolutamente e rigorosamente scientifico.
Che non gli venga in mente mai di interrogarsi sul perché il vino è così e non cosà: si limiti, il buon degustatore, a esprimere la giusta combinazione di parole descrittori e infine proferisca il suo inoppugnabile giudizio di PIACEVOLEZZA.

Ecco, se questo è il vostro concetto di scientificità, credo di essere uno dei degustatori più antiscientifici che ci sono in circolazione. Dirò di più, collegare le sensazioni di un vino al processo di produzione è mia primaria prerogativa. E vi dirò che non è compito facile. Il metodo è meramente abduttivo e al limite induttivo, difficilmente sarà deduttivo, se non dopo decine e decine di anni di allenamento e migliaia di bottiglie.
Ma non me ne preoccupo.
Quindi in generale tutte le opportunità di assaggio differenziale, dove a pari condizioni si fanno variare poche cose mi hanno sempre incuriosito. Se poi ci mettete che io sono un amante del torbido, ecco che non potevo mancare di diventare protagonista di questo piccolo esperimento.
Ho ricevuto pochi giorni prima di Natale il mio ordine da Giovanni Stefano:

3 Paiele 2011, imbottigliati a fine novembre, di cui 1 aveva subito una chiarifica con bentonite e una filtrazione e infine una solfitazione appena prima di imbottigliare con tappo a vite. Le altre due invece sono state imbottigliate scegliendo dalla parte alta della vasca dove il vino sostava da svariati mesi in affinamento, con solo la solfitazione.

3 Riva Arsiglia 2011, come i precedenti, ma nessuno dei tre campioni è stato chiarificato.

Il mio esperimentino inizia quasi subito col Paiele (i Riva Arsiglia non li ho ancora aperti).
Ho coperto le due bottiglie e ho degustato in bicchieri identici non bombati. E facendo in modo di non studiarne il colore e la trasparenza (posso dire che le due bottiglie erano distinguibili in trasparenza, essendo il vetro bianco, ma il vino non filtrato si presentava tutt’altro che torbido. Giusto appena velato).
Il primo assaggio ho distinto correttamente i due vini, ma negli assaggi successivi della prima sessione, ho invece commesso degli sbagli. Da cui ho dedotto che i due vini, da poco separati dalla stessa massa, non presentavano differenze molto rilevabili.
Tuttavia, una volta prese le misure, a partire dal secondo giorno fino a oltre un mese dopo, sono stato sempre in grado di riconoscere i due vini, senza mai sbagliare.
Ho identificato nel primo periodo, circa 10-15 giorni, una maggiore acquosità nel campione più trattato, e in questo periodo una vinosità più marcata dal punto di vista della percezione dell’acidità, mentre il campione non filtrato manteneva maggiore morbidezza e un sapore appena più delicato, ma per nulla acquoso.

A distanza di 20 giorni e oltre, entrambi i vini mantengono bevibilità, ma il campione più trattato, tiene salvo qualche primario al naso e si svuota vieppiù in bocca, mentre il campione non trattato tende verso gli idrocarburi, ma in bocca tiene, pur accentuando la vena acidula.
Ci tengo a precisare che sono quasi certo che in una cieca non avrei saputo affermare né che uno dei due fosse filtrato e chiarificato né il viceversa.
Posso affermare con altrettanta quasi certezza che a partire dal 10 giorno avrei sempre espresso una preferenza per quello non filtrato.
Credo che le strade dei due vini tenderanno a divergere col passar del tempo, ma i vini manterranno struttura simile.
Credo anche che le condizioni al contorno di questo esperimento siano fondamentali quasi al pari della scelta di filtrare o no. Infatti il livello della vasca a cui viene prelevato il campione, il numero di travasi e di solfitazioni penso possano dare campioni molto diversi fra loro. Inoltre il fattore tempo inciderà parecchio.
Aspetto un po’ per affrontare il Riva Arsiglia, per il quale cercherò forse di impostare meglio le condizioni del mio esperimento, magari condividendolo con altre persone ignare.

domenica 24 febbraio 2013

#barbera3 una settimana dopo



Ad una settimana dalla degustazione, tirando le somme di #barbera3 il risultato è per me sempre lo stesso.
La grande maggioranza dei presenti ha compreso gli sforzi e ha goduto con noi gli assaggi di vini praticamente introvabili o sperimentali o ancora in gestazione.
Una esperienza degustativa improntata sulla eccezionalità dei campioni, frutto di ricerca e della conoscenza dei produttori i quali ci hanno proposto, mettendosi in gioco, vini non proprio standard.
Non siamo andati in enoteca e abbiamo comprato le prime bottiglie che capitavano sotto tiro.
Abbiamo cercato produttori meno famosi, meno premiati, meno mediatici, quelli che ci sono sembrati più veri sia come vignaioli sia come persone ed è stato un viaggio intimo nell’animo umano e nei luoghi.
Perché sono convinto che il luogo e i suoi abitanti siano l’uno il frutto dell’altro, una simbiosi.
Ce ne siamo infischiati della purezza dei vini perché è una forzatura intellettuale e moderna, figlia delle semplificazioni del marketing e della degradazione della nostra intelligenza.
Non abbiamo ricercato un modello di vino archetipico o il “nostro modello di Barbera” ma ci siamo fatti portare, cullati dagli assaggi verso luoghi mai raggiunti prima e ad ogni gradino ci allontanavamo dalla linea di partenza e ci siamo persi come sugheri nel mare.
Perché ogni catalogazione, ogni forzatura interpretativa del mondo è destinata a fallire e noi abbiamo fallito.
La Barbera più “acida e monferrina” era una d’Alba, la più elegante e “Albese” era Astesana o della Valcamonica, ogni assaggio demoliva sciocche certezze di carta e stupidi preconcetti.
E il risultato, parziale e momentaneo, di questa ricerca si è materializzato negli assaggi effettuati Domenica 17.


venerdì 22 febbraio 2013

Montpellier interno giorno



Oramai allo sbando per sovrastimolazione sensoriale, con Stefano Amerighi ci siamo fermati ad assaggiare i vini di un suo amico, Emmanuel Pageot, conosciuto durante le sue peregrinazioni nella Vallèe du Rhone alla ricerca della sirah perfetta.
Da qualche anno Emmanuel gestisce un Domaine a Gabian in Languedoc.

Sul banco c'erano ampolle di bianchi a base marsanne, roussane, sauvignon appena prelevati dalle vasche, di un colore arancione velato segno di macerazioni più o meno insistite e figlie del suo amore per il Friuli enoico.
Bottiglie di rosso senza etichetta.
La bottega di uno speziale medioevale, un piccolo cantiere enologico.
Esperimenti riusciti, direi, i bianchi che noi abbiamo assaggiato non solfitati e non filtrati erano molto buoni, freschi, espressivi e non sembravano sacrificare sull’altare della macerazione la territorialità.
Incredibile il lavoro sui rossi, ha vinificato le parcelle di grenache separatamente, in base ai suoli, per capire come fare un vin de garde, oggi tutta la grenache confluisce nel vino “base”.
Il vino ottenuto da suoli silicei era il più complesso, minerale, fresco, tannico e lasciava presagire un radioso futuro.
Quello da suoli argillo calcarei era archetipicamente grenache con quella ridondanza calda e matura e leggere smaltature (a me piaceva una cifra anche questa), l’ultimo da suoli più ricchi argillosi era un vino di frutto abbastanza semplice un vin quotidienne.
Questo esercizio di assaggio della stessa cultivar ottenuta da suoli differenti dovrebbe essere obbligatorio in qualsiasi corso di degustazione perché è un esperienza che rasenta l’incredibile per la differenza dei vini che uno mette sotto il naso e in bocca (una esperienza del genere l’avevo fatta da Paolo Veglio ma lì la differenza era fra vigne giovani e vigne vecchie).
Probabilmente Emmanuel assemblerà le prime due grenache per il suo vin de garde e la terza per il base.
I tannini dei rossi di Emmanuel sono impressionanti, credo abbiano bisogno di molto tempo per scaricarsi o cibi molto grassi e succulenti.
Produce anche una sirah e mourvedre e una sirah in purezza ma qui sospendo il giudizio perché il re della sirah è Stefano Amerighi.
Degustazione avvenuta con Rolando Zorzi e Claudio Nadal.
Kampai

Luigi

a sx Emmanuel Pageot  a dx Stefano Amerighi


mercoledì 20 febbraio 2013

Kriek, Lambic bio di Cantillon


Spuma compatta e rosata.
Naso freschissimo e pungente.
Quasi citrino.
Elegante e nitido, sharp direbbero gli anglofoni.
Amarene altro che ciliegie.
Se avete assaggiato altre Kriek dimenticatele.
Questa è la regina.
Anche se mi chiedo se sia normale la quasi totale assenza olfattiva di profumi di ciliegia.
Comunque sia è la perfezione della materia tenuta su con il giusto dosaggio delle tensioni acido-amare-sapide che stupisce.
Ed io sono stupito.
Kampai

Luigi

lunedì 18 febbraio 2013

alexandre bain pouilly fumè pierre précieuse 2011 spring 2011



Ieri sera ho ordinato per innaffiare una ottima cena al Kitchen (dove per altro si mangia un gran bene ma si beve così così), un Sauvignon (io quando ordino un sauvignon lo so già in largo anticipo che è un gesto autolesionistico, si vede che devo punirmi semi inconsciamente di qualche mio eccesso).
Nello specifico, questo povero vino l’ho bevuto dopo aver assaggiato i due Pouilly-Fumè di Alexandre Baine.
Solo perché ero in centro alla stanza non ho rovesciato nei vasi il contenuto della bottiglia (e non c’erano neanche dei plumbachi nelle vicinanze).
Dunque parliamo di Baine e del suo splendido vino e dimentichiamo la brutta esperienza.
Freschezza in grande materia e pietrosità salina con lievi affumicature citrine, da berne secchi.
Chiunque abbia intenzione di fare o bere un sauvignon è bene che prima assaggi questi.

Ho incrociato Alexandre Bain a Les Affranchis un off salone a Montpellier, era al fianco di Saumon e vi assicuro che la batteria completa di vini da Bain a Saumon mi ha steso e ha innescato una sindrome neuronale, dopo mi aggiravo semincosciente per le sale sussurrando “Loire mon amour”.
Kampai

Luigi

Poscritto
Se andate a Montpellier è bene andare a Les Affranchis, piccola fiera satellite molto friendly, piena di belle ragazze (e ragazzi).

domenica 17 febbraio 2013

Questo noi sappiamo


Questo noi sappiamo:
la terra non appartiene all’uomo,
è l’uomo che appartiene alla terra.
Questo noi sappiamo.
Tutte le cose sono collegate,
come il sangue che unisce una famiglia.
Qualunque cosa capita alla terra,
capita anche ai figli della terra.
Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita,
egli ne è soltanto un filo.
Qualunque cosa egli faccia alla tela,
lo fa a se stesso.

1854 Capriolo Zoppo in una lettera al Presidente degli Stati Uniti

sabato 16 febbraio 2013

La Barbera ovvero dei territori del cuore




La barbera, sia il semplice suono della parola sia la sua fisicità bluastra e dolce di grappolo è, per me, come la madeleine proustiana.
Ricordo esperienze così radicate che fatico a non commuovermi.
La vedevo in agosto maturare nel vigneto dietro casa, gonfiare, scurire, sempre più blu,  sempre più lucida, serica, pesante ma tornavo a Torino senza mangiarla, troppo aspra.

Poi ricominciava la scuola e, lontano, dimenticavo lo sforzo della natura per compiere il suo ciclo vitale.
Poi dopo lunghe telefonate di mio padre con il fattore, con gli amici vignaioli, si decideva il giorno e si partiva per la vendemmia, una truppa di ventura mal assortita e riottosa si tuffava scomposta tra i filari disperdendo energie.
Mio padre o il fattore ci radunavano come i cani con le pecore, ci spiegavano brevemente come fare.
E poi era fatica, fango che toglieva le scarpe e bloccava le gambe, sciroppo colloso blu sulle mani gonfie e tagliuzzate (non erano ancora tempi di guanti in lattice e il colore sarebbe andato via almeno una settimana dopo), risate, caldo, profumi di mosto, erba e terra.

Poi si mangiava in vigna, sotto un portico, e il pane, rigorosamente di pasta dura (non so chi andasse a comprarlo ma compariva sempre tiepido sul tavolo) e il salame crudo della “Sandrina” e quello cotto e l’antipasto piemontese e i formaggi avevano sapori che oggi stento a ritrovare o che ormai ho perso.
Vendemmiando mangiavo quei chicchi, piccoli dolcissimi, coloratissimi  per ingordigia e per quella compulsione che prende noi di città di fronte allo spettacolo del cibo che è lì in natura a darsi, abbondante, vivo, gratuito, integro e non smembrato e mummificato sui tavoli di dissezione dei supermercati.

Queste operazioni duravano un paio di giorni al massimo (già così facevamo tanto di quel vino che sarebbe bastato per tre quattro anni di consumi domestici e regalie varie).
Spesso il marito della “Sandrina” traghettava le uve in cantina con il cavallo ed era una ulteriore esperienza per me.
I cavalli che ha avuto nel tempo erano enormi, bellissimi, gonfiavano muscoli possenti e trascinavano il carro bigoncia in legno azzurro su e giù per le strade di servizio ai vigneti senza sforzo apparente (esperienza preindustriale che già allora era demodè e una certa soddisfazione ci coglieva quando attraversavamo tronfi il paese).

Poi il profumo dei legni umidi e della cantina. Ricordo vagamente la pigiatura a piedi perché con l’assottigliarsi dei volontari è stata introdotta la pigiatrice meccanica che spruzzava mosto a metri di distanza e il pavimento diventava un patinoire, glassato e profumatissimo.
I cani fuori abbaiavano senza sosta ai trattori che facevano la spola ai vigneti.

Tutte le persone e tutti i vigneti in cui abbiamo vendemmiato non ci sono più e rimane di quelle esperienze, di quelle voci, labile traccia come bava di lumaca nella mia farraginosa memoria.

Loro, allora.


Stefano Bellotti, Gianluigi Bera, Nicoletta Bocca, Francesco Brezza, Giuseppe Ratti, Enrico Togni, Ezio Trinchero, oggi, sono eroi involontari di un vitigno che è un territorio del cuore.

Per questo io amo la Barbera.
Perchè la Barbera è dolce come i ricordi, acida come i rimpianti e le perdite, scura come l’oblio.

Luigi 



In degustazione domani ci saranno:



Barbera d’Asti Superiore Doc Vigna del Noce 2006, Azienda agricola Ezio Trinchero, Agliano (AT)

Langhe Barbera Austri Doc 2006, Azienda agricola San Fereolo, Dogliani (CN)

Etoile du Raisin, Vino Rosso (2007), Cascina degli Ulivi, Novi Ligure (AL)

Barbera d’Asti Vino Rosso, Ronco Malo 2010, cuvèe senza solfiti, Az.Agr. Bera Vittorio e Figli, Canelli (AT), loc Serramasio

“vino rosso” per autoconsumo 2010, Giuseppe Ratti, Variglie (AT)

Barbera del Monferrato Casalese Doc 2011, Tenuta Migliavacca, San Giorgio Monferrato (AL)

Barbera Vidur (2011), campione da botte Azienda  agricola Togni Rebaioli, Darfo Boario (BS)

Respiro di Vigna (2006/2007),campione da botte, Azienda agricola Carussin, San Marzano Oliveto (AT)

venerdì 15 febbraio 2013

Della Barbera, di N.Desenzani



O Barbera, Barbera perché ti amiamo così tanto?
E’ una domanda che mi pongo da circa vent’anni.
Da quando col mio miglior amico ai tempi del liceo depredavamo la cantina di suo padre alla ricerca del Nizza di Brema, emblema di quegli anni di Barbera importanti e marcate dal legno; è il riferimento che cercavo sempre tra gli scaffali, insieme al Dolcetto; è il vino su cui ritorno immancabilmente, anche dopo aver girato lontano lontano ed essermi accompagnato a vitigni e vini stupendi.
Eppur c’è sempre un momento in cui ho bisogno di una Barbera. Una come si deve, una come quella di Giuseppe Ratti di Variglie.
Perché, e non sarà un caso, dalla manìa per questo vitigno poliversutus nasce anche la scoperta di quello che potrei dire è il vino di una vita. Che quando lo scopri ti ci vedi riflesso (in meglio, ovviamente). Nel suo essere eccezionale eppur anche imperfetto, talvolta persino riesci a criticarlo, ma poi lo cerchi ancora e ancora.
La Barbera di Ratti, che non esiste più è indubbiamente il mio vino della vita. Quindi forse presto smetterò anch’io di esistere, ma rimarrà solo l’infinita ricerca per rimpiazzare la lacuna…
Ma non ho risposto al perché la Barbera sia un vino così ispirante.
Io credo per il suo essere democratica. Nel senso più ampio e migliore.
Perché ci sono barbera schiette e semplici, e complesse e da meditare. Centometriste e capaci di sfidare i decenni. Ferme, mosse, vivaci, frizzanti. Costose e a buon mercato. E poi ogni vigna, ogni territorio, scrivono sul vino la loro storia come fosse gesso su una lavagna.
Insomma è vino, come dissi una volta a proposito del vigna Maestra di Andrea Scovero, che nell’amarlo dà un senso di appartenenza a una tipologia di bevitore.
Dall’acidità spesso quasi indomabile, quando la mano del vitivinicultore è esperta, possono sortire tra i vini più freschi e beverini del globo.
E se il terreno lo permette, la Barbera può anche essere morbida e sensuale, mostrando solo di rado un leggerissimo tannino che sicuramente appartiene al genere femminile.
Ma anche sul suo genere, maschile o femminile o androgino si potrebbe discutere e ognuno potrebbe portare esempi a favore dell’una o dell’altra teoria.
In definitiva, se stappi una buona Barbera, apri un mondo.
E il mondo della Barbera è accessibile per tutti.
A ognuno la propria Barbera.

giovedì 14 febbraio 2013

#barbera3 Le degustazioni numerate e carbonare del vino ritornano. di Vittorio Rusinà



#barbera3
Le degustazioni numerate e carbonare del vino ritornano.

Cos'è una degustazione numerata?
E’ un evento dalla struttura molto semplice che una volta svolto il suo compito va velocemente smontata, pronta ad essere riutilizzata altrove per continuare a comunicare il vino in modo informale e originale.

Dietro ad una degustazione # c'è un piccolo team di lavoro che chiunque può formare, c'è la passione per il vino, c'è l'amore per la convivialità e il desiderio di condividere con gli altri la propria ricerca.

Le degustazioni # nascono sul web e sono patrimonio di tutti, tutti possono mettere in moto questo meccanismo, si possono fare con un numero ristretto di amici in casa o  con numeri più elevati in locali pubblici, quello che è importante è mantenere l'aspetto conviviale e mai commerciale, l'unico vero profitto è per la conoscenza del vino.

Le degustazioni numerate traggono spunto da una antica tecnica di insegnamento chiamata "spargimento" dapprima studio e ricerca, poi concentrazione, e infine diffusione.
La struttura che crea lo spargimento va sciolta perchè quest'ultimo possa avere successo.
Il segreto è la velocità e il non attaccamento.

Vittorio Rusinà

mercoledì 13 febbraio 2013

Framboise, Girardin 1882, brassè e soutirée par Brouwerij Girardin, Belgium



Se la Kriek ha quei toni dolci e allusivi che adescano, la Framboise è la nobiltà del Lambic.
Nobiltà difficile da raggiungere, sottile nei modi, tagliente ed eterea.
Lambic al naso che si ingentilisce di lampone e sottobosco.
Ma il lampone è pianta spinosa e rustica.
Delicata nei profumi ma robusta nelle membra e acida nei sapori.
E così la delicatezza dell’acidulato del frutto eleva a livelli siderali l’acidulato imponente del lambic.
E il profumo di lampone diventa archetipico e trapassa l’amigdala.
Al naso poi compaiono note affumicate e di cantina umida.
Salata ma di sale dolce, come quando bambini si dà il primo morso al ghiacciolo appena usciti dal mare.
Glu glu glu
E capisci come mai l’uomo beve avidamente da novemila anni o giu di lì questo liquido idroalcolico.
Kampai

Luigi

Ps
Mai più senza Framboise!
Birra acquistata su consiglio di Lorenzo Losi.

martedì 12 febbraio 2013

#barbera3 prove di trasmissione 2°



Ci siamo: domenica 17 febbraio a Torino confluiranno da molte parti d’Italia amici e produttori per partecipare a #barbera3, eroi del barbera, 27 persone per 6+1 bottiglie di barbera, il tutto in uno dei locali più piccoli di Torino ma dotato di grande fascino enogastronomico: il Contesto Alimentare.
creatività e parlantina: Luigi Fracchia
fisica della degustazione e della critica: Niccolò Desenzani
anticipo della caparra e rapporti con la stampa: Vittorio Rusinà
follow on twitter #barbera3 #barberatre

lunedì 11 febbraio 2013

Un po’ di tempo fa


Un po’ di tempo fa ho aperto un Verdicchio di Matelica 2001 di Collestefano e l’ho fatto nella speranza di essere sorpreso.
La vinificazione che esaltava la freschezza e la verticalità organolettica  faceva sperare in una evoluzione elegante ed infatti ho tenuto una serie di bottiglie di annate vecchie e ho cominciato a stapparle.
Invece una delusione (non voglio sminuire nè  il vino nè il produttore, seguitemi nel ragionamento).
Il colore era un po’ troppo verdeggiante per l’età.
Il naso era quasi assente, pochi refoli di profumi non inquadrabili ma neanche pessimi .
In bocca c’era una acidità ancora prepotente ma scissa dal corpo del vino che era debole se non inesistente.
Sapori quasi assenti.
Direte che sia normale per un vino di undici anni che magari non era nato con pretese di longevità.
Avete ragione in linea di principio, però la sensazione era che il vino non fosse morto per anzianità (non c’erano ossidazioni di nessun tipo) ma per incapacità di evolvere.
Questa incapacità di evolvere, forse, è stata indotta da solforazioni abbondanti e filtrazioni altrettanto spinte.
Una analisi del genere l’ha fatta anche Simone Morosi su un Silex 96 di Dageneau.
L’ossessione per la tenuta del vino ha portato a realizzare delle mummie, statiche, la lotta contro il tempo ha tolto la bellezza dell’invecchiamento e l’abbandono della morte.
Non sono vissuti e non moriranno come degli zombie.

Luigi

Ps
Questa volta niente “Kampai” capite da soli il perché.
Con tutto ciò ciò non voglio demonizzare la solforosa e i filtri, però mi chiedo perché faticare per avere delle uve di qualità ottenute in biologico certificato per poi mortificarle?
Ho altre bottiglie e altre vecchie annate continuerò il mio test.

domenica 10 febbraio 2013

Ho consigliato un bistrot




Ho consigliato un bistrot a mia moglie, voleva festeggiare con le amiche il compleanno.
Ne ho scelto uno che avesse una carta dei vini decorosa, però…
Premettendo che le invitate erano tutt’altro che astemie e il vino in casa c’è l’hanno sempre, addirittura il marito di una di loro ne produce.
Ebbene al momento di scegliere cosa bere hanno preso la carta dei vini e hanno candidamente ammesso di non sapersi assolutamente orientare fra le referenze.
Per cui di solito, se non accompagnate dai mariti/compagni, si affidano all’oste con le tre parole che noi tutti aborriamo “vorrei un rosso/bianco/bollicine” e voilà la scelta del prodotto è delegata a terzi.
Il fatto che il vino non abbia appeal per le donne che non delegherebbero mai la scelta di un rossetto neanche alla migliore amica/sorella è una debacle incredibile per chi si occupa di marketing e comunicazione del vino e una presa di coscienza della assoluta incapacità comunicativa dei giornalisti enoici e ahimè dei blogger.
Il vino è una questione maschile?
Come le chiacchiere da bar su calcio e formula uno?
Pensiamoci, perché temo che sia così.

venerdì 8 febbraio 2013

Il Boca "Le Piane" 2006 di Cristoph Kunzli di N.Desenzani






Il tannino di questo giovanissimo vino incide parecchio.
E si sa che vini del genere dovrebbero davvero esser bevuti da più vecchi.
Anche perché non solo il tannino è un po’ aggressivo, ma in bocca son vini molto delineati da giovani, che quasi non lascian trapelare riconoscimenti (in questo caso, invero, ci ho sentito un richiamo netto alla liquerizia).
Sembrano fatti apposta per lasciare che sia il tempo a disegnarne il profilo.
Il naso, grazie a una mano ferma ma non invasiva, un po’ oldstyle nel senso migliore, è invece già più facile. Con proto aromi che vanno dalla foglia di pomodoro al pepe, dal tabacco alla cola, dalla frutta scura all’incenso.
Ma tutto l’insieme, con una materia di estrema pulizia ed equilibrio, grande struttura e trama precisa, piacevolezza tattile evidente e freschezza rara, fa pensare che siamo di fronte a un cucciolo di vino che da grande sarà grande.
E io so.
Con certezza di chi ha avuto la fortuna di bere vini vecchi di queste parti.
Che continuerà a migliorare per cinquanta e più anni.
Senza cedimenti.
Lunga vita a questo Boca!
(Ma già adesso il metro di beva è il secchio)