Chi sono gli uomini dietro i terroir?
Mi ripetevo queste parole come un mantra, cullato dall’ipnotica musica di Smog nel tragitto fra Torino e Montaldo, Val Cerrina (AL).
Arrivando da Torino le colline alla destra mi accompagnavano come bianche scogliere sul mare color mercurio delle risaie.
Un territorio di confine fra la pianura del Po e le colline del monferrato che da qui dilagano verso sud sino all'appennino ligure.
Antico, selvaggio, fascinoso, senza orridi capannoni nei fondi valle.
Fabrizio Iuli mi aspettava in cima alla salita che dal fondo valle porta a Montaldo.
Quaranta case, su una sella fra due colline, con in mezzo la Chiesa.
Intorno boschi di acacie e macchie di biancospini in fiore.
Sono rimasti pochissimi vigneti, ultimi custodi di un territorio, radicati su una terra di argille chiare con blocchi di marne grigie affioranti.
Sguardo trasognato, aria stropicciata, parlata lenta e voce graffiata come se provenisse da lontano.
E’ un giovane vigneron della nouvelle vague che guarda indietro con occhi disincantati e senza troppi condizionamenti né famigliari né ambientali.
Chè qui di terroir non si può parlare, solo di territorio.
Le pratiche umane consolidate sia agronomiche sia enologiche sono ormai estinte.
Fabrizio ha l’accanimento di chi si sente i piedi come radici e l’illusione di essere nel centro del mondo per cui, malgrado sia uno dei pochi superstiti, non abbandona questi luoghi.
Ha piantato Nebbiolo e Pinot nero, una sfida contro se stessi e i miti dell’enologia.
Ha provato, all’inizio, l’ebbrezza dell’enologo consulente e della eno-scienza.
Poi ci ha ripensato.
Oggi prova l’ebbrezza di fare sciocchezze in perfetta solitudine ma con la coscienza a posto.
Pressa, ammosta e poi aspetta che i lieviti di “casa Iuli” vivifichino le masse e compiano la transustanziazione del succo in vino.
In qualche barrique usata, affina le cuvée di maggior pregio.
Sia in cantina sia nel vigneto è custode e non tiranno.
Con gesti lenti mi ha fatto assaggiare dalle botti e dalle vasche i vini, tutti buoni, tutti giovanissimi, alcuni scorbutici (pinot noir), alcuni sublimi (nebbiolo in purezza), alcuni archetipici (barbera Rossore), altri già “smaltati”(Barabba e Malidea).
Siamo saliti su in casa a mangiare agnolotti quadrati (monferrini) fatti dalle mani gentili ma decise di sua madre (che è stata cuoca eccellente nel ristorante di famiglia ormai chiuso) con appresso una caraffaccia di plastica bianca graduata piena di Nino (pinot noir).
Non è rimasta una goccia.
Abbiamo parlato e assaggiato vini suoi e di altri fino a tarda notte.
Nella mia esperienza ho notato che se un produttore ti apre vini di altri, in fondo all’animo di quella persona c’è la timidezza, la generosità, il dubbio, la curiosità che mai diventano l’arroganza e la spocchia del credersi i migliori se non gli unici.
Se vi consiglia un produttore andateci subito, non ho avuto delusioni dal discernimento di Fabrizio.
Io amo la Barabba (Barbera del Monferrato superiore docg) che proviene da una vecchia vigna ripidissima di fronte alla cantina, per ora nessun millesimo mi ha deluso anche quelli ancora in legno.
Poi il Malidea (Monferrato rosso doc) che è un taglio di Nebbiolo e Barbera (Barabba) in cui la potenza olfattiva degli smalti terziari della barbera di Fabrizio cedono, con il tempo, campo alle raffinatezze violaceo/liquiriziate/nobili del nebbiolo, che qui a mio avviso sembra venire molto bene, aspetto ansioso l’uscita del nebbiolo in purezza.
Poi il Nino (Monferrato rosso) da uve pinot noir, esposte a nord e come dice Dan Lerner : “La vigna al tramonto vede il Monte Rosa tingersi del suo stesso nome e saluta i cugini d’oltralpe”, vino raffinatissimo e francesizzante.
Uve prodotte in regime Bio.
Bonne degustation
Luigi
entro novembre ci andro'
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