foto di Stefania Giardina |
Per la colonna sonora.
Sono sempre un po’ perplesso quando voglio scrivere di bio-qualcosa.
Per tutte quelle implicazioni emozionali che si porta dietro travestite da scienza vs stregoneria.
Oggi bazzicando fra pagine vere e pagine immateriali ho provato a ragionare sull’argomento entrando da una porta laterale.
Ho provato a capire perché c’è gente, molto agguerrita a dire il vero, che è contraria o quanto meno dubbiosa del bio-qualcosa e con grandi semplificazioni mi è sembrato di scorgere questi motivi.
Mi pare che i detrattori siano un variegato popolo che ha fiducia nel progresso infinito, nelle tecno-scienze, nella modernità al di là di ogni ragionevole dubbio.
Mi pare che abbiano un presupposto, un credo, un mito fondante direbbero gli antropologi, che li giustifichi nel perseguire a tutti costi l’innovazione, per loro è fondamentale un’accumulazione continua di tecniche e saperi, capaci di rendere per forza il futuro migliore del passato; sempre positivo e necessario il superamento del presente.
Di conseguenza il passato o è museificato o considerato con distacco come comportamento naif, stregonesco, buono tutt’al più di essere investigato da storici e antropologi ma di fatto deposto dal nuovo.
Per costoro la vita appare ridotta ad una sottile linea del presente perennemente in perdita di attualità e senso, sostituito dal futuro, una assenza di profondità temporale che dà, a mio avviso, una grossa instabilità alle capacità interpretative.
In questo vedo una deriva riduzionista, una estraneità alla vita concreta, una fiducia illuministica nella capacità umana di perseguire un progresso infinito.
La perdita di valore del passato e del patrimonio di esperienze organolettiche ha spianato la strada alla modificazione del gusto e della percezione del gusto, campo di alta sperimentazione dell’industria alimentare che coniuga tutte le istanze tecniche con quelle di marketing.
Fondamentale per l’industria alimentare è il controllo e la standardizzazione dei processi produttivi e l’omogeneità dei prodotti.
Per riuscire nell’intento di fidelizzare il consumatore si è operata una profonda opera di “educazione al gusto” rimuovendo tutte le devianze organolettiche e le soluzioni di continuità nell’approvvigionamento dei beni.
Per cui lo scopo a cui l’agricoltura e la viticoltura si sono dovute inchinare non è la qualità ma la costanza produttiva, la quantità e la riduzione dei costi.
Si è operata a tal scopo una “sterilizzazione dei gusti”, una “normalizzazione” che sono strumenti imprescindibili per le produzioni industriali e i loro protocolli standardizzati.
“…siamo entrati in un’epoca in cui il gusto di ciò che resta dei vini (cibi ndr) autentici contrasta ogni giorno di più con i semplicismi estetici della sensorialità alienata.”*
Da ciò è derivata una concezione economica per cui terra e lavoro sono dei semplici fattori di produzione che aspettano di essere combinati in maniera naturale senza tenere conto di strutture economiche “embedded”, cioè incorporate nelle strutture sociali, politiche e religiose.
Per cui i detrattori del bio-qualcosa percepiscono, rovesciando il naturale senso delle cose, come giusto il processo tecnico di trasformazione e del tutto marginale se non negativo il processo agricolo, le sue leggi biologiche e i suoi prodotti ridotti a mera matrice neutra da elaborare in fase produttiva.
Per cui è ragionevole ogni intervento anche pesante che porti all’ottenimento di un risultato certo e costante nel tempo.
Sembra mancare il tentativo, a mio avviso necessario, di ricondurre gli oggettivi successi tecno-scientifici verso una visione onnicomprensiva del sapere, alla continua ricerca del significato originario.
Ossia verificare continuamente se la tecno-scienza e l’economia siano orientate verso l’uomo o abbiano preso una direzione aliena alle necessità e aspirazioni della società.
Un successo scientifico non è necessariamente “buono” in sé.
La bomba nucleare fu uno strepitoso successo scientifico.
Inoltre l’industria è diventata ormai l’unico universo di senso accettato dalla gente che preferisce credere nella “etica industriale” più che nella assunzione di responsabilità del singolo coltivatore.
Invece, non bisogna dimenticare, che la finalità ultima dell’industria non è di tipo etico volto all’ottenimento di un benessere diffuso ma all’accumulo capitalistico di beni e risorse a proprio favore.
La perdita di valore di sistemi di produzione e l’eliminazione di alimenti, sapori, antichi e consolidati ha messo la gente nelle mani del tecnico e del manager, attuali sacerdoti del gusto contemporaneo.
E le stesse cavie (i consumatori per usare un termine meno brutale) del sistema sono diventate, per effetto del lavaggio del cervello mediatico, i principali e strenui difensori di un sistema ormai avulso dalla realtà materiale e finalizzato esclusivamente alla propria perpetuazione e accrescimento parossistico.
Per la redazione di questo delirio mi sono liberamente ispirato a:
M.Aime, prefazione a Serge Latouche e Didier Harpagès “il tempo della decrescita”, Eleuthéra, Milano, 2011
*M.Le Gris, “Dioniso crocifisso. Saggio sul vino nell’era della sua produzione industriale”, DeriveApprodi, Roma, 2010
P.Virilio, “L’università del disastro”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008
Bravo Luigi, bravissimo.
RispondiEliminaD.
P.S.: lo sguardo della giovenca dice molto, a chi sa guardare.
Grazie per la citazione e l'ispirazione al mio di delirio.
RispondiEliminaQuoto, +1 e like.
RispondiEliminaOttima analisi, sconfortanti contorni e bisogno urgente non di un passo indietro ma di portare avanti quello che abbiamo dimenticato per starada.
@Dan
RispondiEliminaTroppo buono come sempre con me. La giovenca in questione ha poi cercato di sottrarmi la macchina foto, che sia luddista?
@Giuliano
hai saputo sintetizzare in due righe il mio pensiero che è quello di alcune tribù africane che indicano il futuro come l'ignoto (non che gli faccia paura ma solo non conosciuto) e il passato come la loro vita, l'esistenza, dobbiamo guardare alla profondità della nostra esistenza e non all'illusorio richiamo del cambiamento.
@Alessandro
non credevo mi leggessi per cui mi imbarazza che tu abbia anche solo sbirciato il mio povero, sia di idee sia di sintassi, periodare per cui scoprire che non ti sia inbufalito con me è già grande soddisfazione e vanto per il futuro, molto bello il tuo articolo su Porthos.
Hai preso in considerazione anche quelli che pensano che "bio" di per se non ha nessun senso? O meglio è neutro. Inoltre davvero faccio fatica a capire perché si debba sempre e comunque essere "partigiani" e non ci si limiti a essere osservatori per giudicare senza preconcetti.
RispondiEliminaUn prodotto bio-quelchelè rispetta davvero la natura? forse... se il prodotto bio viene coltivato in monocultura? Se viene coltivato erodendo bosco o macchia meditteranea? Se viene coltivato su scala industriale?
Inoltre perché si da per scontata l'associazionne bio=buono? Sai che le patate troppo bio sono tossiche per gli uomini? (ma lo saprai di sicuro)... inoltre quando parliamo di bio teniamo conto che l'agricoltura NON è un processo naturale? è figlio del progresso e che ha devastato territori (mi viene da pensare per esempio alle Langhe Albesi dove i boschi sono scomparsi, dove si coltiva quasi solo vite etc etc)...
A volte bisogna anche saper scegliere di non schierarsi. Chi è per l'agricoltura fortemente industrializzata sbaglia quanto quelli che perché coltivano bio mettono l'appellativo "naturale" o "vero" ai loro prodotti che in effetti sono comunque figli del progresso e che crescono la dove c'era la Natura (quella vera)
;-)
@Roberto,
RispondiEliminami aspettavo un tuo intervento che riportasse un po' di sano dubbio e critica costruttiva.
Il discorso è lungo e non si può affrontare nello spazio di un post e degli interventi.
Tu hai ragione su molti punti e il mio post partiva proprio dal fatto che ormai è costume del web schierarsi pro o contro e l'attegiamento laico (il tuo, sul mio ho dei dubbi anche se vorrei esserlo) è praticamente assente.
I miei ragionamenti partono dal tentativo di compredere perchè e cosa spinga i sostenitori dell'agricoltura moderna a ignorare i disastri che le tecno scienze hanno apportato e servire come fedeli sudditi il progresso.
Io volevo rimarcare la necessità di un controllo continuo delle finalità della scienza e una verifica continua della rapacità dell'industria nei confronti del territorio e delle persone.
Tutto lì ciò che volevo dire, poi si può e si devono valutare tutti gli aspetti che tu elenchi compresa la industrializzazione del biologico e le colture intensive bio.
Compresa la monocoltura della vite che tanto paesaggio ha deturpato.
comprese le produzioni di alimenti bio uguali in tutto e per tutto a quelli industriali compreso l'uso indiscriminato di olio di palma e di materia prima a basso costo (anche se marchiata bio ma magari proveniente da paesi un po' più laschi nel rilasciare le certificazioni o in odore di sfruttamento del lavoro minorile).
Non dirò e non mi hai mai sentito dire che bio=buono, anzi è da molti anni che sostengo che la qualità è una sinergia tra uomo, cultivar, territorio, tecniche agronomiche e trasformazione del prodotto.
Come vedi le variabili sono tante ma vanno valutate tutte quindi per esemplificarti tra una farina di mais bio macinato industrialmente, di un grande produttore e un mais ottofile coltivato con impiego della chimica e macinato a pietra io opterei per il secondo a patto che abbia qualità organolettiche superiori (sicuramente le avrà).
Il lavoro è lungo a cominciare dalla selezione di varietà che abbiano una qualche valenza organolettica oltrechè eccellenti caratteristiche tecnologiche per finire allo sviluppo di tecniche agronomiche magari figlie della ricerca ma compatibili con la salute del suolo e dell'uomo (mi vengono in mente i lavori di Giusto Giovannetti, Michel Barbaud, Ruggero Mazzilli e quelli dei coniugi Bourguignon).
Ultimo punto è che il paesaggio anche quello naturale è antropizzato e non da oggi (anche se negli ultimi due secoli c'è stata un bel incremento nella deforestazione, urbanizzazione e nella realizzazione di infrastrutture) risulta che foreste da noi ritenute millenarie siano state fatte oggetto di deforestazione a mezzo di incendio già migliaia di anni fà, periodi in cui anche l'agricoltura era nomade, in quanto non erano conosciute tecniche di preservazione dell'humus per cui si doveva ruotare le colture con frequenza su terreni vergini e quelli sfruttati venivano riceduti alla foresta.
Cincinnato racconta che le sue legioni nella pianura padana per raggiungere la Gallia hanno marciato per quaranta giorni nella foresta.
Noi a quei livelli di copertura arborea non potremo mai più arrivare e pare ormai che un grave problema per la fauna non sia tanto l'inquinamento ma le innumerevoli discontinuità che i nostri sistemi viari e infrastruttureali hanno inflitto al territorio.
Una bella gatta da pelare, quello che mi fà rabbia è che la Terra non ha risorse illimitate ma ci stiamo comportando ignorando il problema, anzi le nostre elite bocconiane ci inculcano la fede nel progresso infinito e qui io non ci stò.
ieri ho postato un commento ma non è uscito nulla. Ho sbagliato qualche passaggio?
RispondiEliminaIl tuo commento è giusto. Ormai sono anni che si parla di downshifting e di burla del PIL.
RispondiEliminaLe risorse non sono illimitate, la crescita non può essere illimitata e fors'anche nella crescita economica illimitata NON c'è la felicità.
Un punto più di altri elencati nel tuo commento mi pare centrato e IMHO è sintomo di un problema grande e pericoloso: quello dell'erosione del territorio in nome del cemento (che non è uguale a progresso ma è uguale a soldi facili e senza dover poi pagar tasse).
Questo problema coinvolge tutti e crea problemi ingenti, alcuni dei quali non sono ancora esplosi. Uno è quello della discontinuità del territorio che ha effetti anche sulla fauna, il prossimo potrebbe essere quello delle risorse alimentari...
Caro Luigi,
RispondiEliminami è piaciuto il tuo post, soprattutto per le considerazioni "oltre la superficie".
L'agricoltura torna ad essere con prepotenza, dopo la sua industrializzazione, e la sua "globalizzazione" - con tutte le sue problematiche legate alla sovranità alimentare - al centro di un discorso "politico".
Cosa produrre e come produrlo su un territorio non è una scelta di poco conto. E poi, come sottolinea Roberto, diventa centrale il ruolo dell'agricoltore (e quindi del sostegno della sua attività) nella salvaguardia di un territorio sempre più impermeabilizzato. Ad esempio assegnando il suolo pubblico a giovani agricoltori con sovvenzioni per lo startup aziendale, ovvero sfruttare meglio la legislazione vigente al fine di affidare direttamente alle aziende agricole la rinaturalizzazione, la manutenzione e la cura del territorio. Attivare strumenti per scoraggiare le monocolture che impoveriscono il terreno, con rischi di desertificazione...insomma il tema del bio non è semplicemente quello che mettiamo sotto i denti, ma un'idea diversa di come lo produciamo, nel rispetto del bene comune e delle risorse naturali.