Chi ha paura dell’ossidazione?
Una sera a cena al Consorzio mi hanno travolto con l’ancestrale novità dei vini ossidati.
Il mio cervello ha avuto bisogno di una notte per riallineare i neuroni e dare senso all’accaduto.
Già nel dormiveglia tormentato, alcune domande balenavano enigmatiche ed io che non so rispondere ve le giro come in un gioco di specchi.
Le ossidazioni, spesso unite a macerazioni prolungate, sono territorio o no?
“Aperitivo con un bicchiere di zibibbo secco un vino che non si può non assaggiare almeno una volta nella propria vita.
Questo zibibbo è vinificato in anfore interrate vicino alle vigne.
Chiuse con lastre di marmo, temperature decisamente incontrollate e a Dioniso l’onere onore di entrare nel mosto e vivificarlo.
Sommo disinteresse per malolattiche eseguite o meno.”
Le ossidazioni sono una spasmodica ricerca di un profilo organolettico antico che si ritiene mitico e migliore del presente, sono una fuga verso l’isola di utopia?
Oppure sono una fuga dal pressing asfissiante dei tecnici ossessionati dalla chimica, dai controlli, dalle analisi e infilano i loro nasi nei bicchieri solo per trovare difetti (o presunti tali)?
Una fuga dalla eno-industria che non può permettersi il rischio di produrre in assenza di protocolli?
“Poi Pietro mi porta un calice di bianco che sbevazzo e apprezzo in abbinamento a dei caprini.
Altro bianco in modalità ossidativa, ruvido e dissetante, un vin de soif.”
Le ossidazioni però danno dei profili organolettici a cui bisogna abituarsi, profumi intensi, floreali di gigliacee e sapori salmastri, di cera d’api, di frutta stramatura, spesso un po’ verdi e urticanti ma sempre leggeri e rinfrescanti.
Io trovo che siano vini preindustriali, vini alimento, bevibili a temperatura ambiente.
C’è chi sostiene che non sappiano di vino (cioè di quell’idea stereotipata che del vino ci siamo fatti negli ultimi venti anni).
C’è chi sostiene che omologhino i sapori al pari del legno.
“Poi Andrea porta un altro bianco da abbinare al Comté d’alpage di 36 mesi, il vino sembra uno Jerez Manzanilla fino, esaltante, fresco come un’onda che frange sugli scogli sferzarti dal vento, il trionfo dell’ossidazione in botti scolme e coltre di flor.
Memorie di galere e navi fenice si incrostano sui bordi del bicchiere.”
L’ossidazione non è un processo di stabilizzazione fisico chimica del vino?
Che la tecnica enologica contemporanea sopporta a stento e solo se relegata in nicchie produttive, meglio se naif.
Oggi si parla di riduzione, ossidazione controllata con candele in ceramica porosa, di temperature controllate per preservare il frutto, la freschezza, la mineralità.
Ma il frutto è figlio del territorio o è il sottoprodotto fermentativo dei lieviti selezionati in compartecipazione con il vitigno e i suoi precursori aromatici?
Quindi lontanissimo dal concetto di terroir e dalla sua irriproducibilità tecnica?
Durante quella serata mi hanno coccolato con innumeri chicche enologiche prelevate con generosità dalla loro cantina, in particolare il post di oggi è scaturito dai bagliori di senso emanati da:
Serragghia 2006 zibibbo vino secco, Gabrio Bini, Pantelleria (TP);
Filagnotti, Gavi docg, annata non pervenuta, Cascina degli Ulivi, Novi Ligure (AL);
Poi ragionando e pensando (pratica difficoltosa e stentata per le mie povere sinapsi) mi sono venuti in mente:
Sol passito di Ezio Cerruti, Castiglione Tinella (CN);
Vigna del Volta, de az. agr. La Stoppa , Rivergaro (PC).
E altri pensieri sparsi:
La flor non è un consorzio microbico irriproducibile al di fuori del suo contesto territoriale?
Le ossidazioni non avvengono con modalità uniche, dettate dal complesso embricarsi di condizioni climatiche locali e mosto-vino?
Le tecniche ossidative sono spesso dei modus operandi inscindibili dal territorio e dal milieu eno-agricolo che le ha inventate e affinate.
Bonne degustation
Luigi
wow! voglio provare!
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