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venerdì 28 novembre 2014

"Barla” una verticale 2009, 2007 (ripescato dalla memoria), 1999, 1997 di Lorenzo Corino




Barla è barbera di Costigliole d’Asti.
Da un vecchio vigneto
Alcune piante sono a piede franco
Sono allevate ad alberello modificato
Tra i filari non passano trattori da più di trenta anni
Da più di trenta anni passeggia tra quei filari Lorenzo Corino
Che si ripete e ci ripete che il male peggiore per la vite è il viticoltore e la sua ansia di fare, intervenire, modificare
Derive di onnipotenza agricola
E l’erba tra i filari è più alta di un uomo ed è la cosa più vicina possibile all’effetto foresta che si possa ottenere in un vigneto
Lorenzo è la persona culturalmente più stimolante che abbia trovato nell’enomondo
Starei ad ascoltarlo per ore a parlare di viticoltura e di buon senso agricolo
Studia e conosce per “non fare” o quantomeno fare il meno possibile
Una crasi fra Fukuoka e Giovanni Haussmann
La fortuna ha voluto che potessi assaggiare una verticale del suo Barla
Il suo vino non è barbera
È “Barla”
Terreno mutato in uva e poi accompagnato verso una forma quasi stabile di bevanda idroalcolica

Il 2009 e il 2007 (ripescato dalla memoria)
In gioventù il Barla è un vino complicato, potente, scontroso, diviso fra eccessi di suadenti dolcezze e sferzate di acidità e impennate di smalti e sensazioni organolettiche di vini perduti nelle memorie di noi frequentatori in gioventù (oramai lontana) di vecchie cantine

Il 1999 è annata di grazia per queste zone
Il vino è disteso, ha assorbito gli eccessi, si fa nettare complesso e terroso, elegante di amarene, dal sorso potente e trascinante
Materico, pulsante

Il 1997
È snello ed elegante, polveroso, caleidoscopico, generoso, la componente terrosa è palpabile e la deglutizione del fondo torbido è una esperienza lisergica e primigenia

I vini di Lorenzo, a mio avviso, sono tra i più territoriali che abbia incontrato, nessuna o poche concessioni al varietale, grande profondità “ctonica” e minerale

Abbiamo terminato gli assaggi con un sakè artigianale di un produttore di Tokyo, la cui famiglia è in attività  dal 1200 d.c. che ha fatto sobbalzare tutti sulla sedia.

Giornate come questa non si dimenticano.
Kempè*

Luigi


*La presenza di un folto gruppo di giapponesi ha dato un significato reale a questa parola

giovedì 27 novembre 2014

Mangiari di Casa

di Vittorio Rusinà


Mangiari di casa, il titolo riusa il bellissimo nome di un posto di cibo e bevande a Milano (Mangiari di strada) e lo adatta alla dimensione casalinga, quella che viviamo quotidianamente nelle nostre abitazioni. Una dimensione in cui i piatti non sono cucinati per essere fotografati, ma piuttosto per essere mangiati.
Al Bar abbiamo pensato di aprire le cucine delle nostre case e di condividere la nostra quotidianità enogastronomica, una ordinarietà che a volte si trasforma in straordinarietà. 
Si parte da casa mia a Cavoretto, collina torinese, si inizia con due piatti di verdure: broccoli cotti a vapore e cipolle borettane saltate in padella, quest'ultime cucinate da mio figlio Andrea. In casa consumiamo grandi quantità di verdure di stagione, guai a un pomodoro o una melanzana fuori stagione, i miei figli sono rigorosi e io li ammiro per questa fermezza.
La foto dei broccoli l'avevo già pubblicata su Facebook e lì era intervenuta l'amica Valentina Lenzi che mi consigliava di condirli con olio evo, shoyu e gomasio (fatto, ottima dritta)



Per ultimo ho tenuto questa foto di biscotti di Natale preparati da mia figlia Francesca con cannella e zenzero, buonissimi, friabili, alta pasticceria, lasciati su un vassoio in cucina, pericolosamente a portata di mano.
Chissà cosa succede nelle cucine di casa degli altri Amici del Bar, a parte Riccardo che vive con Sara aka Fiordifrolla ed è tutto dire, io sono curioso e voi?



martedì 25 novembre 2014

Bruno Duchene e La Luna

di Vittorio Rusinà


"Sono arrivati i vini di Bruno Duchene!" così gli amici di Banco scrivevano qualche giorno fa su Facebook, butto un'occhiata, ah che belle etichette, sono incuriosito. Prima di me si butta sulla preda Luigi, non lo sa ancora ma Bruno ha vigne su terreni di scisti (che sono la passione segreta del capo del Bar), e mi manda un feedback positivo. Ok vado anch'io.
Anche Simona di Banco mentre scelgo di bere La Luna 2013 (90% grenache e 10% carignan) mi sussurra "è buonissimo", ci siamo dunque.
Sul tavolo nei piatti di latta bianca: insalata capricciosa, uovo rotto con peperoni, acciughe, capperi&co, tagliolini con burro e nocciole, zabaione con salame di cioccolato, meringa con pere al forno e nocciole caramellate al masala (una droga per me).
Seguono le note di due ore di degustazione di uno dei più buoni vini rossi che abbia assaggiato quest'anno.


 

Pungente al naso, caldo, pepe, melograno, rosmarino, alloro, carne, sangue, erbaceo, lavanda, resina.
Lavanda sì lavanda, foglie di menta, di eucalipto, costante la resina.
Fin da subito grande beva, dopo un'ora raggiunge la perfezione.
Asprezze marine, acqua di mare sugli scogli, iodio (le vigne sono su terre di scisti vicino al mare).
Poi campoi di fiori, resine di conifere, fieno, erbe, amarene, griotte
Alla fine splendido equilibrio fra alcool e corpo materico, incredibile la leggerezza, la sottigliezza. Un vino vivo, un vino col KI, un vino mai uguael a se stesso, un vino che ti porta a danzare nel bicchiere e nella vita che ti circonda.

I vini di Bruno Duchene non sono distribuiti in Italia, si trovano da Banco a Torino (Andrea e Pietro, i proprietari, sono amici di Bruno)
Le vigne di Bruno Duchene si trovano a Banyuls in Francia al confine con la Spagna, in quella terra che è chiamata Catalunya da una parte e dall'altra.

lunedì 24 novembre 2014

Un vino da ascoltare: omaggio a Pino Ratto e al suo dolcetto

Quando ho saputo della morte di Pino Ratto mi sono chiesto se scriverne o no.
Ebbene, al decimo post dei miei “colleghi” blogger i quali, più o meno, scrivevano così “non ho mai conosciuto Pino però…”
Mi sono vergognato di loro e di questo mondo che costringe ad “esserci”, ad esprimere il proprio giudizio (che nessuno ha richiesto, per altro) ed ho deciso di non scrivere nulla di Ratto.
Il silenzio rispettoso mi pareva la cosa migliore da opporre alle agiografie decerebrate e presenzialiste dei conoscitori di Pino Ratto “per procura”.
Poi per caso, Mauro ha ricevuto un testo e due foto di un nostro lettore, Gianvittorio Randaccio, che non conosciamo di persona malgrado frequentazioni comuni, il quale ha veramente conosciuto anche se per poco Pino Ratto, ne ha sentito la voce, ne ha stretto la mano.
Ho/abbiamo deciso di pubblicare perchè è la testimonianza di un un incontro reale e anche perchè così do/diamo la facoltà di parola a chi sta dall’altro lato del bancone e l’idea che lo spazio che ci divide sia scarso e facilmente superabile mi riempie di speranza e di gioia.

Nella presentazione del suo pezzo Gianvittorio ha scritto:
“(lo scritto)…Riguardava una visita in cantina a Pino Ratto, scomparso qualche giorno fa e del quale forse qualche volta avete parlato sul blog.
Ecco, io sono un bevitore naif, appassionato ma poco tecnico, in grande sintonia
 con i "succhi" di vinoir e con quello che passa dagli amici del bar: per questo
 ho pensato al vostro spazio, perché mi sembra di sentire aria di casa, anche se
 nemmeno ci conosciamo.”…
Noi, come i bravi baristi, vogliamo che voi vi sentiate a casa, per questo non chiudiamo mai e vi stiamo ad ascoltare, adesso silenzio tutti e ascoltiamo insieme la storia che  Gianvittorio ci racconta.
Luigi


 Un vino da ascoltare: omaggio a Pino Ratto e al suo dolcetto


di Gianvittorio Randaccio

Qualche dubbio, mentre telefoni a Pino Ratto, ti viene. 
Hai già provato cinque volte e non ha risposto nessuno, se non un fax che, dopo una decina di squilli a vuoto, ti ha trapanato ogni volta l’orecchio e il cervello. 
Hai pensato anche di mandargli un fax per preannunciargli la tua visita, ma non te la sei sentita, forse sei meno moderno di quello che vuoi dare a intendere, o forse il fax ti è sempre sembrato una macchina diabolica. 
A un certo punto, però, Pino risponde e, con la sua erre arrotata, ti dice che a lui farebbe piacere incontrarti, puoi venire quando vuoi in mattinata, tanto lui dalle sette è in piedi: ah, e poi se vuoi del vino devi portarti i recipienti, perché lui di bottiglie e di tappi non ne ha più, è qualche anno che non vinifica, l’unico vino che gli è rimasto è ancora nelle barrique, giù in cantina.
Pino Ratto vive a Rocca Grimalda, sopra Ovada, in frazione San Lorenzo, alla fine di una via che sembra portarti in un’altra nazione, tra prati, vigne, curve e pendii improvvisi. 
La sua casa è l’ultima, dopo non c’è più niente, solo bosco, rovi e serpenti. Quando arrivi, in compagnia di due amici ad alta gradazione alcolica, non c’è nessuno, ma non ti stupisci, anzi, ti sembra impossibile che in quest’eremo scalcinato viva qualcuno: la casa è in stato di abbandono avanzato, sul prato ci sono gli avanzi di molte vite: sedie, tavoli, bottiglie vuote, gomme, un gatto acciambellato vicino a una damigiana. 
Non prende nemmeno il telefonino, solo quello del tuo amico ha una disperata tacchettina, che permette di sentire che il telefono all’interno della casa suona, ma nessuno risponde, solo il solito fax. 
Un vicino di casa ci dice che Pino sarà in giro con il suo doblò bianco, e magari tra poco lo troviamo.

Bisogna rivedere i programmi, allora. È un attimo, si va a Rocca Grimalda, beviamo qualcosa in un bar e aspettiamo che Pino torni, più che altro speriamo che Pino torni, chissà dov’è finito. 
Al Bar Genova facciamo un paio di giri di Barbera e Cortese, vini di queste parti, tra Piemonte e Liguria, poi, inaspettatamente, Pino risponde al telefono: sono tornato, dice, ero uscito, e dalla voce capisci che è stupito del tuo stupore, come uno che pensa che potrà pure uscire una mezz’oretta anche se qualche giorno fa ti ha detto di venire quando vuoi, che tanto lui si alza alle sette del mattino.
E allora, velocissimi, eccoci di nuovo davanti a casa. 
Lui ci sente arrivare, apre la porta e ci accoglie, stanco e con la faccia triste. Dice che non sta tanto bene, che è arrivato, qualunque cosa questo voglia dire. Io rimango spiazzato. 
Però siamo venuti fin qua per lui, e allora cerchiamo di conoscerci, per quel poco che si può fare in un’occasione come questa. 
Pino ci indica le sue vigne, che a guardarle adesso bisogna un po’ immaginarsele, visto che sembrano più dei boschi invece che quei luoghi dell’anima chiamati Gli Scarsi e Le Olive, da cui nascevano quei vini così incredibili: ormai lui lì non ci va più e tutto sta andando in malora, un po’ come la casa. Anche i calici che ci vengono offerti sembrano aver vissuto giorni migliori, così come la porta della cantina in cui, a fatica, veniamo accompagnati per assaggiare l’ultima annata prodotta. Fin da subito la cantina ci sembra appartenere a un altro mondo: è grande, spaziosa, fresca, e anche se è in stato di abbandono, sembra fare ancora benissimo il suo lavoro. 
Sul retro una parete è costituita da pannelli di plastica, probabilmente l’unica soluzione trovata per far finta che anche lì ci sia un muro e che, pensa un po’, questo possa proteggere adeguatamente il vino che riposa qui da anni.

Pino sposta una botte, prende un siringone, a me sembra uno sciamano, e ci riempie i calici di quello che dice essere il Dolcetto degli Scarsi, annata 2006, o giù di lì, non si ricorda bene. 
È il suo vino più forte, più maschio, quello de Le Olive è più gentile, e ci dice che possiamo anche non dirgli niente, perché quelli che si dicono veri esperti di vino non si sbilanciano mai, lasciano sempre parlare gli altri, per paura di fare brutte figure. 
Ma noi non siamo degli esperti e non abbiamo paura di dire la nostra: questo dolcetto sembra tutto tranne un dolcetto. 

È di una potenza spaventosa, e ti fa rendere conto subito che è vero che i vini di Pino Ratto non si possono bere da giovani, a meno che non si sia in cerca di esperienze forti. 
Nel calice ho un vino di cinque anni che è di un rosso quasi granato, che fa sedici gradi, che sa di frutta e legno e di mille altre cose, che sprigiona un’energia che quasi ti manda al tappeto. 
E mentre cerco di capire cosa sto bevendo finalmente Pino si apre un po’: ci parla di quando giocava a calcio (anni Cinquanta, serie A, nel Genoa), del fatto che qualcuno prima di una partita gli abbia detto la cosa sbagliata nel momento sbagliato e lui gli ha tirato addosso uno scarpino, dicendo addio ai sogni di gloria; di quando suonava il jazz in Francia, il clarinetto, e del fatto che a lui sembra impossibile che ci sia gente che suona sempre la stessa nota per tutta la vita, come si fa ad annoiarsi così? 

Poi, come per sbaglio, parliamo anche di vino: del fatto che lui ha cominciato per colpa di suo padre, che le barrique vanno benissimo per far invecchiare il vino, basta che non siano giovani, che siano state tostate bene, e che si sappiano usare. Suo padre usava le botti grandi, è per questo che lui è passato alle barrique: forse l’unico vero obiettivo della sua vita è stato fare il vino meglio di suo padre, e farlo facendo esattamente il contrario di quello che faceva lui.
Ogni tanto Pino si ferma e sembra che si commuova un po’, soprattutto quando gli dico che mi fa una certa emozione stare nella stessa cantina in cui più di trent’anni fa anche Mario Soldati assaggiava il suo vino e si aggirava tra bottiglie e barrique. Non gli chiedo niente di Veronelli, chissà cosa succederebbe, qui di emozione ce n’è a fiumi.

Il vino che ho nel calice intanto si ingentilisce, basta qualche minuto perché sprigioni nuovi profumi e aromi e ti accarezzi il palato con più morbidezza: forse non è il vino più buono che io abbia mai bevuto, ma pensare che questo prodigio sia fatto con uve dolcetto mi affascina e stupisce. 
Pino mi dice che il vino basta saperlo fare, e a lui viene sempre su un gran nervoso quando pensa a tutte le porcherie che si fanno per commercializzare liquidi che del vino hanno solo il nome stampato sull’etichetta. Il dolcetto ne avrebbe di potenziale, eccome, ma se la gente vuole solo fare soldi in fretta, ci si ritroverà sempre con quelle schifezze che ti propinano, è matematico. Il suo vino, invece, è fatto con amore, con passione, e si sente: è un vino bizzarro, imponente, si dice che ogni bottiglia sia diversa dall’altra e che non sia difficile trovare annate storte, con puzze e difetti evidenti. 
Per Pino Ratto, però, è una cosa normale: il vino ha centinaia di componenti, come fai a pensare di controllarle tutte, come puoi sostituirti alla natura e produrre qualcosa di diverso da quello che l’uva di ogni singolo ceppo è pronta a fare? Lui non ne vuole sapere di chimica, di tagli, di porcherie: non sa bene neanche lui come gli viene fuori questo dolcetto, ma è giusto così, e lo è sempre stato.

Io, ma non avevo dubbi, sono d’accordo con lui, e penso di avere una fortuna incredibile, mentre lo vedo riempirmi le bottiglie che ho portato da casa: tra un po’ il vino di Pino Ratto non si troverà più, e io conserverò questi pochi litri come un tesoro prezioso, da centellinare piano piano, nel corso degli anni.
Passa ancora poco, ormai, ed è ora di pranzo. 
Pino va in un angolo e prende una bottiglia da uno scatolone: dice che è di una decina di anni fa, che possiamo berla a casa, con calma. 
Sul tappo c’è un ragno, anche un filo di muffa. Io e i miei amici non sappiamo cosa troveremo lì dentro, ma se anche solo sarà una cosa bevibile, la gusteremo come un pezzo di storia, assaporandone ogni sorso.
Poi, senza voler nemmeno discutere, Pino salta sul suo doblò e decide di accompagnarci a Silvano d’Orba, per un pranzo veloce: lui non si ferma con noi, ha già mangiato due panini, e poi nel pomeriggio viene ancora gente, ma ci scorta volentieri. 
Quando arriviamo al ristorante scoppia un temporale, forse è un segno del destino, e quando lo salutiamo nella mia testa rimbomba la cosa che Pino mi ha detto quando gli ho chiesto come sia possibile riuscire a fare un vino come il suo: è semplice, mi ha detto, il vino parla, basta solo saperlo ascoltare.
Facile, no?

Gianvittorio Randaccio


venerdì 21 novembre 2014

Alla Società di Canischio con I Vignaioli Valperghesi

di Vittorio Rusinà

Questa è una storia di miracoli, miracoli semplici, di campagna, fatti dagli uomini con l'aiuto degli dei.


C'era una volta e c'è ancora Enofaber, il mio amico Fabrizio, uno che ama il vino come pochi, insomma un giorno mi invita a una degustazione con i Vignaioli Valperghesi, è di sabato pomeriggio, sono quasi tutti garagisti, la si fa alla Società di Canischio, sopra Cuorgnè, poi si cena tutti insieme.


La Società di Canischio, tutta rinnovata, è il progetto di Paola Moiso, nella foto qui sopra dietro al bancone, creato per aiutare sua figlia Arianna, diversamente abile, a inserirsi in un contesto lavorativo e sociale. E' un posto in cui si sta bene, in cui il tempo passa ancora lento, come una volta quando qui c'erano solo vigne, orti e meli.


Io non so dove Fabrizio, nella foto mentre versa il Lambrusco canavesano dei Feroci (rarità), ha scovato i Vignaioli Valperghesi, credo ad una passeggiata gastronomica, ma insomma li ha scovati, e li ha radunati a condividere i loro vini, ah che forza della natura Faber, è uno che ama la terra in cui vive e poi ha il terzo occhio.





Una ventina di bottiglie coperte, diverse con tappo a corona, da uve erbaluce, barbera, chatus, neretto, freisa, nebbiolo, bonarda.



Subito un colpo al cuore, l'Erbaluce 2013 di Michele Autretto, 300 bottiglie già esaurite, lieviti indigeni, torbido come piace a me, naso complesso, minerale, sapido, gran beva, distante dagli Erbaluce "pacciocati" che conosco. Io penso che l'Erbaluce deve ancora trovare una sua vera espressione, una sua espressione naturale senza tutti quegli interventismi che sono tipici della zona di produzione da cui proviene. 



Altro colpo al cuore il Rosso San Martino (3 euro, avete letto bene!) il Rosso Comunitario prodotto con le uve del territorio conferite da tutti i Vignaioli Valperghesi, grande beva, freschezza, vino da cibo. Bello questo vino condiviso, un rosso da tavola prodotto con più tipologie di uve, come si faceva un tempo in campagna.
Altri vini che mi piace segnalare: i Lambruschi e la Freisa dei Feroci (si chiamano così dal nome del trattore che usano nei campi), Il Rosso Canavese di Coggiola da seguire.
Una degustazione che mi ha sorpreso, un gruppo di vignaioli che cerca di difendere e valorizzare le ultime vigne della zona, un tempo vocata all'agricoltura poi abbandonata per le industrie della zona che però ora sono in crisi, in crisi profonda.
Consigli: avvicinarsi alla viticoltura bio, inesistente in zona purtroppo, fermentazioni spontanee, no a chiarifiche e filtrazioni invasive, meno barrique, puntare anche a etichette che richiamino singole vigne e territori (Rosso Canavese non è poi così attraente), continuare a confrontarsi con valide realtà esterne.
Un gruppo di vignaioli che va sostenuto, andiamo a trovarli, andiamo a bere i loro vini nelle loro piccole cantine.



http://www.vignaiolivalperghesi.it

giovedì 20 novembre 2014

Aecht Schlenkerla Rauchbier - Weizen

di Diego DeLa

Premessa: generalmente non apprezzo troppo le birre weizen o weiss che dir si voglia e ho la netta sensazione che tra i cosidetti “esperti” di birra la mia  sia una simil avversione condivisa da molti , ma trovandoci  dinnanzi ad una sorta di monumento della birra tedesca la voglia di provare è tanta.
Parlando della taverna Shlenkerla ci riferiamo ad un edificio la cui costruzione  risale al 1405 e che negli ultimi cento e più anni ha cementificato il rapporto tra la produzione brassicola e  la città arrivando ad identificare per molti appassionati  Bamberga con la Rauchbier ossia con birre caratteristiche di questa regione la cui base maltata è basata per la maggior parte su malto affumicato, in modo tradizionale, su legno di faggio. L’apporto dato da questa tecnica ha dato vita negli anni ad uno stile vero e proprio.
Quella di cui andremo a parlare oggi comunque, non è la classica rauch ma una particolare interpetazione fatta dal Brauerei Heller delle birre di frumento (weizen) tedesche, per cui oltre al malto di base vi è una buona percentuale di frumento (maltato e non affumicato) a far da base a queste birre.
Nel bicchiere la birra si presenta ambrata intensa, opalescente e sormontata da una schiuma ocra e persistente.
Al naso l’aroma esprime da subito la peculiare caratteristica delle rauchbier ossia sentori affumicati che ricordano moltissimo lo speck altoatesino, in questo caso però è meno ficcante rispetto ai classici esempi dello stile  e porta con sé anche una lieve nota di caramello che si amalgama bene con le sensazioni più tipiche delle birre di frumento, per cui ritroviamo  banana matura e chiodi di garofano, uniti in questo caso ad una lieve presenza legnosa.
In bocca il corpo è medio basso e caratterizzato da una carbonazione vivace.L'attacco è dolce, porta con sé note di miele e banana matura  che si sposa molto bene con una punta di fumo, il finale è abboccato e persistente virando molto sull’affumicato. Il luppolo in questo caso pare essere centellinato giusto per controbilanciare la dolcezza data dal malto.
Una birra schietta e sincera, come solo le birre tedesche sanno essere, certamente meno caratterizzata dall’affumicato rispetto alle classiche varianti  Urbock e Marzen e che fa dell’equilibrio il suo punto di forza. A tavola la porterei molto facilmente con cibi affumicati, ma potrebbe fare la sua parte anche su piatti di pesce azzurro e su fresche insalate.
Nota: Ringrazio i ragazzi  della pizzeria/focacceria  50 Teglie  di Torino per la disponibilità a condividere la bevuta con me e per l’ottimo lavoro divulgativo rispetto al cibo e alla birra che stanno conducendo. [deLa]

martedì 18 novembre 2014

Sarò breve


Esterno giorno con sole (incredibile dopo tanta acqua)
Pranzo di lavoro (ho sempre trovato un ossimoro abbinare il pranzo al lavoro)
Parliamo nel dehor (effettivamente il riscaldamento globale mi fa stare in ansia ma in una città come la mia, quel tepore novembrino aiuta la socializzazione e l’umore)
“ho portato un bianco” dico io
Non è in temperatura perfetta, però lo apriamo
bono e strabono (anche solo per il rapporto qualità prezzo)
L’opalescenza nel bicchiere è bellissima ricorda certi onici pregiati
H2o vegetale
Si parla e si mangia e tra i calamari e il Bianco Granselva 2013 nasce l’amore
Poi curioso chiedo lumi sui vini di Oddero
Trac!
Ecco in tavola il Nebbiolo 2011 avanzato dalla serata precedente
Verso roteo annuso assaggio
Bono e strabono
Un 2011 carnoso e maturo, con profumi di liquerizie e spezie vivide, intense
Masticabile
Tannino (il mio punto debole) setoso
Bevo
e
ribevo
E poi barcollando raggiungo l’auto

Luigi

lunedì 17 novembre 2014

Noi siamo alberi di ulivo nel paese di Yirca, a Soma

di Vittorio Rusinà


A nulla è servita la protesta civile degli abitanti del villaggio di Yirca, vicino alla città di Soma, in Turchia, e degli ambientalisti, 6000 piante di ulivo sono state sradicate per far posto a una centrale a carbone della multinazionale Kolin Group.
Tutto questo nonostante una "tardiva" sentenza del Consiglio di Stato che chiedeva di fermare il progetto. A gestire il taglio "le guardie di sicurezza" del gruppo industriale Colin che hanno anche trascinato via con la forza i manifestanti. 


Lo storico turco Ilber Ortayli ha scritto su Twitter: "Io sono un albero di ulivo nel paese di Yirca, a Soma", un pensiero che condivido e diffondo.
Sempre più nel mondo cosiddetto civile i contadini e i cittadini devono difendersi dai soprusi dettati dall'avidità dei gruppi industriali, spesso traditi da quelle istituzioni che dovrebbero difendere i loro diritti.



foto: Greenpeace Turkey
fonti: La Repubblica, Il Secolo XIX, Greenpeace Akdeniz

giovedì 13 novembre 2014

Il Solleone di Tenuta Grillo

di Vittorio Rusinà


Questo qua sopra è un vino vivo, un vino che possiede ki, energia, è flessibile, evolve e cambia in continuazione, ti prende, ti strattona, ti abbraccia, ti bacia, ti dà forza.
L'ho scelto dallo scaffale alto, giù in cantina, quello dedicato ai vini da bere solo in convivio, i migliori, quelli da far maturare nel tempo, da non toccare e invece stasera ho scelto di usare il metodo Desenzani "bere una bottiglia super anche da soli". Nic è un campione, è uno dei più grandi degustatori di vino che io conosca, perché degusta in situazioni al limite dove altri non oserebbero, ecco lui osa e io stasera ho scelto di imitarlo. Si impara molto per imitazione.
Il Solleone è un Sauvignon, lo produce Guido Zampaglione in Monferrato, è già un pochino che gli sto dietro a 'sto vino, mi piace, mi intriga, mi emoziona.
Guido è un vignaiolo che tiene sui media un basso profilo, quasi un signore di altri tempi, timido, riservato, eppure fa grandissimi vini in Piemonte e anche in Campania, ha sposato Igiea che produce un ottimo riso a Busonengo, terre vercellesi.
Un filo di zolfo appena aperto che vola via, poi fiori, miele, camomilla, mela, quasi un sidro, una leggera carbonica (qualche mese fa non c'era), leggera radice di liquirizia, pasta di mandorla, la carbonica poi svanisce, beva straordinaria, 1, 2, 3, 4 calici, grande equilibrio, cambia, evolve, si trasforma, canna da zucchero alla fine.
Mi soffermo a pensare: "Perché molti fanno vini morti, perché non cercano la vita?

scritto una sera di novembre, che ero solo a cena e mi sono trattato bene.

mercoledì 12 novembre 2014

Cascina Boccia, piccola perla nell'ovadese.....

di Andrea Della Casa


Sono circa 10 anni che Anna si è trasferita da Genova a Tagliolo nella vecchia Cascina del nonno per ripercorrere le sue orme e prendersi cura delle sue vigne: un ettaro e mezzo circa da cui ricava 5-6000 bottiglie. Tra questi filari quasi centenari, bassi e contorti, maturano i vitigni tipici della zona, barbera e dolcetto di Ovada.
Anna fa della schiettezza e della sincerità i suoi cavalli di battaglia. Non cerca di cavalcare le mode del momento quando ti racconta del suo vino e preferisce un confronto vis-a-vis piuttosto che rifugiarsi dietro  pubblicità seducenti e artificiose.


L’azienda non ha ancora la certificazione biologica, ma il lavoro in vigna e in cantina è tutt’altro che interventista. La concimazione avviene grazie al letame dei cavalli e della mucca presenti in cascina.
Le basse rese di uva (40-50 q/ha) vengono pigiate con torchio verticale e  vinificate in tini di cemento per poi passare a botti d’acciaio per l’affinamento.




Il barbera del Monferrato 2011 è vino ancora giovane ma già godibile, di buona complessità e struttura, corredato da quella fresca acidità tipica del vitigno.
Il dolcetto di Ovada 2011 è gusto per me nuovo, maggiormente abituato ai suoi cugini d’Alba e di Dogliani che si presentano più immediati e levigati. Questo dolcetto ha maggior corpo con elevato potenziale di longevità e finale di bocca leggermente amarognolo.
Il bisboccia 2013 ha una bevibilità davvero elevata, scorrevole, slanciato e di bella freschezza. 


Realtà in progressiva crescita quella di Cascina Boccia, ne risentiremo parlare parecchio in un futuro molto prossimo.


martedì 11 novembre 2014

Io sono caffè

di Vittorio Rusinà


Fuori piove, dentro da Banco è casa, c'è persino la cassetta di legno, molto freak, con la scritta dipinta Black Barrell, c'è il vassoio della vera insalata capricciosa, c'è il bicchiere vuoto dove prima c'era il dolcetto immenso di Nicoletta, Simona finito il servizio si prepara una sigaretta e Andrea si cimenta nel caffè, attenzione il Caffè.



Un infuso di caffè, arabica di Panama, perché il caffè si beve così, si lo so da tanto tempo, finalmente adesso inizia ad essere realtà grazie ad alcuni maestri del caffè anche nei ristoranti, nei bar, anche in Italia. Piccoli importanti passi. Dobbiamo imparare molto sul caffè, dobbiamo scendere dal fragile piedistallo "Ah il caffè buono come lo si fa in Italia nessuno lo sa fare", questo non è vero.
Tazza grande per un grande caffè, la caffeina è molto equilibrata in infusione (almeno questa è la sensazione che ho), mi viene da pensare alla teina dei grandi tè, i profumi si aprono, il gusto corre dalle sensazioni di nocciola al cacao, amaro e dolce in equilibrio, perfetto.
Per un attimo, fortissimamente, Io sono caffè.
Ancora due mesi poi potrò dire: I am coffee.

thanks to Andrea Gherra, Banco, Torino


lunedì 10 novembre 2014

Pinot Nero 2007, Le due Terre

di Niccolò Desenzani


Procedendo negli anni di enomania, attraversati da relativamente squattrinato e senza agganci con le istituzioni del vino, si arriva a concepire uno strano rapporto coi vitigni chic come il pinot nero. Di fatto ci è precluso quasi l’universo mondo borgognone e dobbiamo trovare canali alternativi di accesso al signor Pinot Noir. Una via è passare per le espressioni italiane, un’altra è quella delle Appellation e delle zone meno note della Borgogna e limitrofe regioni. Poi c’è la via dell’Alsazia, che forse è la vera Mecca misconosciuta del vitigno. Anche se qualcosa di curioso forse si annida in altre regioni meno caratteristiche per monsieur Pinot Noir, come nello Jura.
Si potrebbe cercare in America, o nell’altro emisfero, ma dalla periferia italica quelle zone del vino sono veramente lontanissime per disponibilità e conoscenza.
Insomma il titolo di questo prologo forse potrebbe suonare “Sono un ignorante e non conosco il pinot nero”.
Tuttavia qualche idea del vitigno me la sono pure fatta, per somma di tutte queste rappresentazioni alternative e ne ho trovate anche di buone, a volte molto buone.
Nell’ultimo periodo mi sono anche concesso qualche lusso di Borgogna, ma con scarsa soddisfazione.
Invece c’è un Pinot Nero italiano, che va ad aggiungersi a quei due o tre che mi sono piaciuti in questi anni, e che è proprio un bel vino. Parere, ovvio, di incompetente, ma tant’è.
Sto parlando di Le due terre, azienda di Prepotto che riesce con pochi vini prodotti e poche bottiglie a rappresentare tre stili di vino (parlo degli stili che in qualche modo la dicotomia Borgogna-Bordeaux ha formato come categorie interpretative): per l’appunto il bordolese, con un Merlot di razza, il borgognone con un Pinot Nero strabiliante e l’autoctono con un uvaggio di schioppettino e refosco, il Sacrisassi, anch’esso espressione fuori categoria. E ci fermiamo alle bacche rosse. Però se ci pensate, dove trovare questa concentrazione e fusione di terroir glocali in aziende piccole? Mica facile. E poi a questi livelli direi che son davvero pochi in Italia.
Comunque il fatto sta che a primavera, in occasione della degustazione organizzata da Caves de Pyrène, ancora una volta mi son trovato al banchetto di queste persone dolci e belle, e ho assaggiato. Quando il Pinot Nero 2011 mi è entrato in bocca ho sussultato. Perché aveva il registro “sopra” dei grandi vini. Un assaggio e poi ciao.
Assaggio che ha scavato nella mia rete neuronale e mi ha spinto a cercare quest’etichetta.
Grazie a un amico, ho preso la 2007.
E una sera in compagnia l’abbiamo aperto e bevuto, in men che non si dica.
Mi è piaciuto tanto perché fortemente varietale, ma nello stesso tempo davvero cazzuto. Fresco e vivo, e in ottima salute. Oltre ai soliti fruttini (sto diventando allergico a questi riconoscimenti) poi in bocca ha un energia seria. Qualcosa che qualcuno riporterebbe al terroir (ma sto diventando intollerante anche a questo tipo di osservazione).
Tuttavia, procedendo negli anni di enomania, non voglio diventare uno che rinuncia a spiegare cosa gli è piaciuto di un vino limitandosi a dire buono o non buono.
Ci tengo che si capisca che in questo vino c’è vocazione. Il che vuol dire che ogni anno sarà diversissimo dall’altro, ma i vini saranno sempre buoni e riconoscibili come “il Pinot Nero di Le due terre”. E poi ci saranno le 2011 che, BUM!, fanno il botto.
O forse ho solo sognato?

*Per un confronto con la 2008 vedi anche questo post di Luigi.

mercoledì 5 novembre 2014

Antimateria, Birre & Caffè

di Vittorio Rusinà



"La vera rivoluzione è far incontrare la gente." (Lorenzo Bottoni)

Venerdì 31 ottobre a Torino da Black Barrell c'era la serata "Antimateria. The Plot is the Revolution", ecco io ho fatto la pazzia di andarci e non sarò mai più quello che ero prima.
Premessa: io ero andato perché volevo convincere Elena Bellusci a scrivere per il Bar e poi perchè Diego, homebrewer del Bar, mi aveva fatto una testa così "devi venire, merita".
Era una sera fredda-fredda, meno male che sul tavolo c'erano pane casereccio (molto buono), salumi, formaggi e mele, ah le mele meritano una foto.



Renzo Losi (Black Barrell) scusate "il grande" Renzo Losi, mi si avvicina e mi dice: "Sono le mele che mi ha mandato la mia mamma da Parma". Lui poi le usa per farci la birra alla mela (2 versioni di cui una già in vendita). Sono umani questi birrai.



Elena Bellusci è quella carina in piedi, è lei che ha organizzato, ottimamente, la serata, quello seduto invece è invece Lorenzo Bottoni, mastro birraio, che gira in Multipla targata Svizzera cosa che lo costringe a guidare in modo ligio (ahahah), anarchico, folle, fuori dalle regole, certo non amato da un certo settore del mondo gastro-birro-enologico italiano, uno che parla chiaro quando si tratta di discutere di grande distribuzione, di qualità del caffè (l'ultima sua avventura), di organizzazioni a difesa del cibo, buono e pulito. D'improvviso mi sento meno solo, sento che ci sono altre persone con cui condividere il desiderio di andare oltre alle apparenze.






Birre in ordine sparso di degustazione: 
IPA di Birrificio Torino, dove Renzo Losi prepara alcune basi delle sue birre, dono del mastro birraio Lorenzo Mascarello (presente alla serata)
Barn, Prosecco Weiss, di Lorenzo Bottoni aka Laboratorio
Kriek dei Puffi, Black Barrell
Seson, Lorenzo Bottoni
Nut-The Irish Jinn, Black Barrell
Cogs, la  meravigliosa coffee porter di Lorenzo.
Bodega 2004, metodo solera, birra immensa, il capolavoro di Lorenzo.



Poi tutti giù in cantina a spillare birra direttamente dalle botti, grazie alla generosità di Renzo, tutti felici, un convivio perfetto di allegria e grande curiosità.



Ah dimenticavo i salami appesi, salami di categoria.
A chiudere la serata una chicca preziosa, dono dell'amica Evak Effervescente, un sidro di Bretagna, superlativo.




Una serata che non dimenticherò mai!

http://www.blackbarrelsbeer.com/
http://www.piccololab.it/

martedì 4 novembre 2014

A proposito di vini estinti

di Niccolò Desenzani



Mi ritrovo spesso, ma sempre meno, a bere vini estinti.
I vini in questa categoria sono caratterizzati dall’essere riconoscibili per tratto e stile, ma soprattutto perché sembra che scompaiano con i loro creatori, o talvolta per vicende che vedono comunque la fine di una produzione eccellente e ben connotata.
Alcuni esempi sono celebri: pensiamo ai Dolcetto di Pino Ratto, alle Barbera di Nino Bronda e al suo  “8 filari California”, alla barberapiùbuonadelmondo di Giuseppe Ratti di Variglie…
Nella zona del Bramaterra, vino longevo al punto da sopravvivere ai suoi interpreti per tanti anni, è pieno di vini estinti, che ancora oggi (con)tengono, vivo, il ricordo di sapori anni 80, ma forse anche 50, 60 e 70. Sapori che sono andati perduti. Pare ovvio che i sapori siano difficili da salvare o rendere in musei dedicati. Seppur ricordo da piccolo in viaggio con mio padre nel sud dell’Inghilterra di aver visitato un museo in cui si ricostruiva un’abitazione come doveva essere nell’800 (mi pare) ed entrando in cucina avevano avuto l’idea di diffondere un odore di zuppa, fatta alla maniera di allora.
In un gioco di specchi di memoria e parole io ricordo ancora quel museo, e quell’odore. E quindi forse ho un ricordo di qualcosa che ha preceduto la mia esistenza di generazioni!
Il vino in questo ci aiuta. Perché spesso i vini straordinari durano tanto ed ecco allora che possono diventare dei veicoli per viaggiare nel tempo oltre che nei luoghi.
Ieri per esempio ho bevuto l’ultimo sorso dell’ultima bottiglia di “vigna Ronchetto” 1996 di Lino Maga. Vigna che il Cavaliere di Broni non vinifica da più di dieci anni e di cui ricordo ancora delle 1997 strepitose: un Barbacarlo light che tirava fuori la carbonica dopo qualche minuto dall’apertura e si faceva bere a sifone, con dei parametri analitici da far paura 12,58%, acidità tot 6,46 %, volatile (acet. %) 0,31, SO2 tot 21,2 e pH 3,37, scritti in retroetichetta.
L’altra sera ho bevuto un Bramaterra ris. 2004 di Roberto Diana, che ora non produce più. Una bottiglia non del tutto a posto, con una sorta di deriva leggermente lattica su cui si aggrappava una pungente esile carbonica. Aggiungete che i Bramaterra spesso hanno dei sentori ematico ferrosi molto forti.. Volevo lavandinarlo, ma poi ho lasciato lì la bottiglia. La sera dopo si era curato le ferite e ne veniva fuori una bella arancia. La sbavatura un po’ lattica si era ricomposta e per fortuna l’ossido di ferro integrato nella succosità agrumata.
Nella zona di Finale Ligure ho conosciuto in questi anni un vecchio contadino che ancora produce vermentino, lumassina e rossese che per fermentare usa delle botti che sembrano arrivare da un’altro tempo. Non è uno accurato e i vini sono pieni di difetti. Ma cavolo qualche volta esce qualcosa di indimenticabile da quelle bottiglie!
Quasi ogni giorno penso ai vini di Giuseppe Ratti, purtroppo estinto l’anno scorso, e non di rado rimembro il Dolcetto stupendo di Pino Ratto… vini che non ci sono più e che nessuno oggi è in grado nemmeno lontanamente di imitare.
Perché?
Perché?
Perché?