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giovedì 31 luglio 2014

Terza Via, metodo classico, brut nature, 2011, grillo in purezza


Grillo in purezza in metodo classico.
Buono, che dire.
“Si fa bere bene e porta nel bicchiere la decadenza del grillo di Marsala.
La risacca salmastra del mare.
La ricchezza dell’uva.
Il pizzicore fresco del maestrale e l’alito caldo del libeccio”
Ma, forse, non è indimenticabile.
Kempè


luigi


mercoledì 30 luglio 2014

Pomodoro & Basilico #piattidalode

di Vittorio Rusinà


Patrick Ricci è uno dei migliori pizzaioli d'Italia e il fatto che "operi" a pochi chilometri da Torino è una gran fortuna. Non pago del lavoro di ricerca e selezione delle materie prime (farine macinate a pietra bio, salse di pomodoro e pelati "veramente italiani" (chè non basta più siano madeinitaly), formaggi, salumi e verdure da encomio, Patrick si è dato allo studio delle pizze storiche napoletana.
Nella foto la Marinara dei Signori che risale al 1750 circa: passata di pomodoro San Marzano d.o.p., acciughe del Mar Cantabrico San Filippo, aglio, olio extravergine d'oliva,
origano. Una pizza da urlo che rientra di diritto fra i #piattidalode.
Provate anche la Cosacca del 1836 con il pecorino fiore sardo sparso sulla passata di pomodoro appena fuori dal forno, olio evo e basilico...da commozione.
Io ho bevuto un Montepulciano d'Abruzzo di Terraviva, fresco di cantina, oltre ad una piccola ma pregevole selezione di vini naturali da Pomodoro&Basilico trovate ottime birre artigianali.

Pomodoro&Basilico
Via Martiri della Libertà 103, San Mauro Torinese (TO)

martedì 29 luglio 2014

Progetto Maliosa


di Andrea Della Casa
la vigna vecchia
grappoli di trebbiano sulla vigna vecchia
Quando Antonella Manuli acquistò i primi terreni della Maliosa nel 2005 si impose la salvaguardia della sostenibilità ambientale e della bellezza del territorio. E ad oggi ha mantenuto i suoi intenti. 
L’Azienda Agricola Fattoria La Maliosa è situata nel cuore della Maremma Grossetana è produce olio, vino e miele seguendo i dettami di agricoltura biodinamica e biologica.
I terreni dell’azienda dal punto di vista geologico derivano da fondali marini e nell’arco di pochi metri abbiano differenze notevoli.
La vigna più vecchia di circa 1 ettaro ha 50-60 anni e ospita vitigni bianchi e rossi: procanico, trebbiano, sangiovese, ciliegiolo....

Dal 2012 i lavori in vigna ed in cantina si avvalgono di una mano esperta come quella di Lorenzo Corino, agronomo e vignaiolo che a Costigliole d’Asti coltiva i suoi vigneti con agricoltura biologica da decenni, da quando in Italia ancora non si conosceva nemmeno il significato di questa parola ora abusata e svuotata.



le nuove barbatelle



I vigneti alla Maliosa (che a termine dei nuovi impianti dovrebbero l’estensione massima di 6 ha) sono pacciamati con paglia (da agricoltura biodinamica), vengono trattati solamente con rame e zolfo, e si sta lavorando per abbandonare totalmente l’utilizzo dei macchinari in vigna avvalendosi poi unicamente dell’aiuto dei cavalli.


pacciamatura
Per Corino la pacciamatura è fondamentale “…è una premessa per la sostanza organica e trattiene l’acqua…”, e soprattutto sul Monte Cavallo, la zona più alta dell’azienda dove si sta impiantando il nuovo vigneto (che probabilmente sarà ad alberello), ricca di ghiaie, sassi, ciottoli, e completamento priva di argille, la presenza di sostanza organica data dalla pacciamatura diviene ancora più importante.Niente concimazioni, nemmeno organiche, perché come afferma lo stesso Corino “…la vite non vuole letame perché ha un effetto immediato che però si esaurisce in fretta…”. Nemmeno il sovescio (letame vegetale) viene praticato, che è utile ma costoso.


il Monte Cavallo visto dalla vecchia vigna

Il
Bianco 2013, che ha già riscosso ampi consensi allo scorso ViViT, deriva principalmente da uve procanico, vitigno tipico della zona e ormai quasi dimenticato dalla moderna viticoltura. Subisce una macerazione di circa 3 settimane sulle bucce che gli conferisce nerbo e sostanza.
Il Rosso 2013 è da uve ciliegiolo maggiormente (le annate precedente era invece il sangiovese a farla da padrone nell'uvaggio) e verrà imbottigliato prima della prossima vendemmia. L'assaggio da botte rivela un vino ancora di vivace e intraprendente giovinezza  già decisamente affabile, suadente e fruttato.

Il progetto che si sta portando avanti là in Maremma è decisamente interessante e da seguire con attenzione, e in Maliosa si respira un'aria di grande determinazione e tenacia nel seguire e perseguire un percorso tracciato dalla sostenibilità ambientale, senza scorciatoia alcuna. Anzi.

lunedì 28 luglio 2014

L'insalata russa del Pastificio Nizza #piattidalode

di Vittorio Rusinà


Il Pastificio Nizza è una scoperta di mia madre, una bella scoperta. Tutti i giorni in un aogolo di quasi periferia, lontano dall luci della movida e del centro città, si preparano paste ripiene, arrosti, polpette, frittate, verdure di tutti i tipi, friciulin dolci e la mitica insalata russa, fra le migliori che si possano trovare a Torino, parola di @tirebouchon.



NB: oltre che in Italia e in Russia questo tipo di "insalata" è molto amata anche in Iran e Polonia, con varianti varie nella scelta degli ingredienti.

Pastificio Nizza di Ferrigno Anita Giuseppina
Via Nizza 207/A, Torino

venerdì 25 luglio 2014

Il Paradiso? Il Brunello di Montalcino 1999 di Manfredi.

di Riccardo Avenia


Please click play

L'euforia, l'adrenalina, la gioia, sono sensazioni che provo solo grazie ad alcune determinate situazioni. Come ad esempio la compagnia di persone per me speciali, praticando alcuni sport, dopo aver fatto un ottimo lavoro, oppure grazie a della buona musica. A volte, anche per merito di una bottiglia di vino.

Devo ammettere che difficilmente stappo etichette del genere senza pensarci bene, senza un'occasione idonea. Ho molto rispetto per il prodotto, per il suo valore e per l'occasione in sé. Quella giusta per questa bottiglia, è capitata poche sere fa, durante la cena che solitamente organizzo con gli amici di sempre, per un saluto prima delle le vacanze estive. Seratacce.

La porto in tavola a sorpresa, a serata inoltrata e tutti esultano in preda all'euforia. La stappo ancora fresca da cantina (tappo integro) e la verso: scende il silenzio.

Nel calice, il liquido granato ruota ordinato e leggiadro. I profumi sono quelli evoluti, eleganti e nobili - senza espedienti - che solo i grandi vini a base sangiovese possono avere. Fermentazioni spontanee,  lunga permanenza in vasche di cemento e non meno di 36 mesi in grandi botti di rovere, per una complessità decifrabile in arance mature, in prugne, a quel fantastico cocomero, ad erbe in infusione, a quella leggera ruggine, all'incenso e quel sottile ventaglio cromatico-olfattivo, da sottofondo. C'è omogeneità, una determinata linea di odori che fa salire a tutti l'adrenalina fino alle stelle.

In sorso rasenta quasi la perfezione gustativa, flessuoso come una melodia armoniosa. Come un prezioso velluto per il tatto. Le vibrazioni sensuali di un rapporto. Tannino, acidità, morbidezze, tutto in perfetta simmetria. Un crescere, non in volume, non in potenza, ma in eleganza.

La gioia è tale, che resta poco da esprimere, c'è solo da ascoltare, gustare e goderne. Poi, a bottiglia finita, ci si guarda in faccia speranzosi di poter provare almeno per un'altra volta un'esperienza simile.


P.s. Ora che ci penso, quella sera avevo gli amici, della buona musica di sottofondo ed una grande bottiglia di vino. Cos'altro chiedere.

Piccola nota a lato: da un Brunello di Montalcino del 1999, mi sarei aspettavo un qualcosa di più fresco, invece il vino era sì, il massimo, ma questa sua evoluzione me la sarei aspettata tra alcuni anni. Come se invece di camminare questa bottiglia avesse corso, arrivando solamente prima al traguardo. Chiaramente, in questi casi, è anche una questione di conservazione della medesima.

giovedì 24 luglio 2014

Che noia: ancora a parlare di solforosa?

di Niccolò Desenzani


Di vino naturale (VN) e solforosa (SO2) sembra che sia stato detto tutto. Ormai in molti hanno scelto un'inattaccabile definizione del primo, “autorizzando” in deroga l’utilizzo della seconda. Così possono spaccare il mondo nelle famigerate due categorie e la vita ti sorride, e tutto sembra chiaro e cristallino.
Io per professione di vita dubito. E le frontiere troppo ben delineate mi raggelano il sangue e mi viene voglia di berci sopra fino a quando si confondano di nuovo i confini delle categorie, fino a quando puoi di nuovo sentirti a disagio perché non ci sono appigli. Si vive forse peggio, senza certezze, ma se un giorno dovesse passare una brezza di verità spero sempre di essere fra quelli che se ne accorgono e ne traggano piacevole refrigerio.
Così sulla questione VN e SO2 non ho ancora delle categorie definitive. E questo mi è servito forse a percepire un piccolo alito di vento, un sussuro.
Sono sempre più convinto che la deroga sulla SO2 sia uno dei fattori che più fanno la differenza. Mi spiego. Bisogna secondo me ammettere che fra utilizzare la solforosa e poi eventuali altri additivi c’è in realtà un continuum. Per carità anche io penso che fare un buon vino con solo la solforosa e senza alcun altro ausilio enologico porti a risultati più interessanti*, ma fare i puri e demonizzare gli additivi e poi mettere la deroga su SO2 ha il sapore dell’ipocrisia.

Come si vede, la solforosa è inestricabilmente legata alla eventuale definizione di vino naturale. Ciò spiega fra le altre cose come l’ignoranza porti alla stortura del “naturale = NO SO2”, per l’appunto una stortura logica e de facto.


vino naturale ⇍ No SO2                                                        vino naturale ⇒ No SO2 ?


Se invece la SO2 viene definitivamente tolta dalla vinificazione, al pari di qualunque altra sostanza oltre il grappolo di uva, ecco che secondo me le cose cambiano davvero in modo “catastrofico”. Nel senso che si apre la porta all’ignoto profondo.
Uniche bussole per il vinaiolo restano la tradizione e la scienza. Al pari di un moderno timoniere che possa solo usare il vento e nulla più per raggiungere la propria destinazione, ma disponga di strumentazioni e di conoscenze estremamente sofisticate.
Attenzione, non ho detto che ci vogliano necessariamente tradizione e scienza; magari uno fa il vino buono pure a istinto o ad cazzum, ma oggettivamente l’unico tipo di conoscenza organizzata sulla quale si possa contare mi sembra di quei due tipi.
La mia esperienza dice chiaramente che senza solforosa persino il winemaker più esperto mette in bottiglia una sostanza della quale non conosce quali saranno le evoluzioni.
Eccetto che per vini il cui processo miri a una forma particolarmente stabile, come i passiti o certi vini ossidativi, o che si intervenga con processi termici o meccanici molto invasivi (pastorizzazioni, filtraggi…) il sistema biologico che si infila nella bottiglia, senza aggiunte di alcun tipo, è per sua natura dinamico, perché pieno di organismi viventi con una attività metabolica.
La mia impressione è che se la variabilità degli stati di un vino messo in bottiglia con l’aggiunta di solforosa può essere comunque relativamente elevata, il suo potenziale di stati quando venga imbottigliato (mettiamo l’anno successivo alla vendemmia) senza alcuna aggiunta in alcuna fase della vinificazione, è incredibilmente più grande, molto più imprevedibile e con una variabilità molto più rapida nel tempo.
Se la variabilità fosse l’unico esito io non ci vedrei il problema, ché i vini che cambiano da bottiglia a bottiglia, da un momento all’altro e mentre li bevi sono per me materia di piacere più che di disappunto. Inoltre avremmo l’esatta antitesi della serialità industriale.
Ma c’è un problema.
Fra gli esiti del vino NO SO2 c’è anche l’appiattimento verso un sapore unico spiacevole, conseguenza probabile di derive batteriche la cui natura a me ancora sfugge, ma peraltro ancora non ho trovato qualcuno che mi sappia spiegare perché succedano e come evitarle senza SO2.
Se dunque il mestiere del vignaiolo “naturale” in cantina è di base quello di trasformare l’uva in vino evitando che degradi verso altre forme, utilizzando solo accorgimenti che mimano processi naturali, e senza aggiungere alcuna sostanza, io credo che il passo ancora da compiere sia la comprensione delle dinamiche batteriche e dei loro equilibri.

*questo è un passaggio sudato: a favore della deroga sull'uso della solforosa sicuramente possiamo portare il fatto che sia di base solo un antisettico e antiossidante e agisca più per prevenzione che per correzione. Quindi non vi è correzione diretta del gusto, ma prevenzione rispetto a certe possibili derive problematiche. Tuttavia anche così ragionando apriamo la porta a nutrienti e a qualunque aggiunta che il vinificatore ritenga possa contribuire positivamente alla salute del mosto e del futuro vino. Fate vobis.

mercoledì 23 luglio 2014

Il Baglietto di Vendicari #piattidalode

di Andrea Della Casa




Dopo una levataccia, il viaggio e qualche inghippo burocratico all’aereoporto, stanchi e affamati, siamo capitati per caso in questo luogo incantato alle porte della natura rustica dell’Oasi di Vendicari, come se avessimo attraversato improvvisamente un misterioso gate spazio-temporale. 

Ad accoglierci un dehors stupendo e rilassante e un piatto semplice come questo antipasto siciliano, solo per sottolineare che non sempre servono rielaborazioni e arzigogoli da nouvelle cousine per deliziare il palato. Materie prime tipiche della regione: peperoni, melanzane, olive, caponata, pomodori....insieme in un antipasto figlio della terra e del sole, tutte cose che amo. E' in queste occasioni che il mio animo meridionale latente esce con prepotenza. 

Così questo piatto mi ha rappacificato con il mondo e mi ha dato un motivo in più, se mai ne avessi avuto bisogno, per amare questa terra.
Sequel poi con pasta ai pomodorini di pachino, il tutto bagnato da una freschissima birra artigianale Vendicari non filtrata.
Ma dopo una settimana, ahimè, ci siamo svegliati. 

martedì 22 luglio 2014

C’è una nuova stella nel mondo del vino enotecnico?


Non è che mi ponga in dialettica con i vini che ritengo “industriali”, non li bevo e basta. Che faccia bene o male non saprei e neanche mi interessa saperlo. Non li bevo sino a che, messo alle strette, sono in qualche maniera costretto ad assaggiare il prodotto della “tecnica agroenologica” e mentre lo faccio, in fondo in fondo, spero che mi piaccia anche se per ora non è mai successo che sia fulminato sulla via di Damasco.

Tanto meno oggi che ho bevuto un taglio insolia e chardonnay di 11,5° vol (mi ha attirato proprio il basso contenuto di alcol, un punto a favore del vino visto che siamo in estate, momento in cui la sete aumenta il volume della bevuta con conseguenze talora nefaste), bella grafica (quella delle etichette è una mia fissa io mi faccio molto influenzare e comunque mi piacciono molto quelle innovative).
Il vino in sé era perfetto e iperprofumato sembrava figlio di un blend di rieslingsauvignontraminer con il solito dolcino d’ordinanza che rende la beva infantile e ammiccante.
Costruzione perfetta di sapori, profumi, gusti, colori.
Bevendolo come si beve una bibita, ghiacciato come la banchisa, mi chiedevo un po’ di cose:
vini così a chi o cosa servono?

Al territorio?
(Come può giovare al territorio un vino costruito negli uffici marketing)
A promuovere il consumo di vino fra i giovani ormai annichiliti dai bibitozzi?
A giustificare l’esistenza in vita di “enne” ditte che producono additivi enologici?
A giustificare i corsi di laurea in enologia che sono sempre più in posizione ancillare nei confronti dei produttori agroenochimici?
A giustificare i protocolli di cantina degli enotecnici?

Me lo dite voi a che cosa cavolo serve un vino inutile come quello che bevuto?
E non è nemmeno costato poco, diciotto euro in pizzeria!

Meglio, molto meglio un vino cattivo del contadino che un vino così insulso ed inutile, meglio acqua oppure una gassosa di qualità.
Sono stufo che vini come questo vengano paragonati a quelli artigiani, non è possibile paragonarli giocano in campionati diversi, sport diversi.
E comunque c’è una nuova stella nel firmamento enotecnico, purtroppo…

Una risposta parziale alla mia domanda l’ho trovata su Pietre Colorate n°18 nell’articolo di Andrea Segre, Memoria e souvenir, a pg 11:

“Nessun contadino, nessuna terra, nessun sapore. Le mele (vino tecnologico) anche a Triboj (ovunque nel mondo) sono cattive. Peggio sono inutili. E con loro le banane, le arance, le patate. L’unico loro valore è quello economico. L’unico sapore è quello economico. Che sapore ha l’economia?”

Luigi

lunedì 21 luglio 2014

Extraomnes/Stillwater Migdal Bavel, una saison italiana.


di Diego DeLa




Nasce dalla collaborazione tra l’italianissima Extraomnes, di cui abbiamo già parlato diverse volte su questo blog, e l’americana Stillwater. I due birrai si incontrarono sulla mitica crociera Un mare di Birra e scoprendosi entrambi grandi cultori delle saisons belghe, decisero di unire le forze in questa collaboration brew, chiamata poi Torre di Babele (probabilmente riferito alle difficoltà iniziali di interazione linguistica tra i due) e denominata in etichetta Italian Saison Ale.
 C’è da sottolineare quanto Brian Strumke, birraio di Stillwater sia ferrato nell’utilizzo delle spezie in sala di cottura ed in questo caso, suggerì a Schigi (EO) di cercare il giusto mix, identificato poi con  la mirra e pepe di Sichuan, e di utilizzarlo poco prima del raffreddamento del mosto, e non in bollitura come molti fanno. Il risultato è una birra in cui la caratterizzazione del lievito saison viaggia a braccetto con le spezie.
Nel bicchiere la birra si presenta di un bel dorato carico, appena opalescente, la schiuma è bianchissima, pannosa e persistente.
Il naso è tutto un caleidoscopio di aromi con un attacco molto delicato di miele e fiori bianchi, poi arrivano le spezie con  sentori di zenzero, mirra, una buona presenza di mandarino, lime e la ficcante presenza di note pepate e rustiche. L’aroma è molto pulito e accattivante.
In bocca il corpo è esile, cosa che ne favorisce enormente la beva e la carbonazione media, anche qui ritroviamo un attacco maltato e poi si vira verso il lime, pompelmo e lo speziato pungente.
Come da copione una leggera acidità ripulisce il tutto ed invita alla bevuta seriale preceannunciando  un finale è molto secco ed erbaceo. 
Una birra motlo equilibrata in tutte le sue componenti, rinfrescante ed appagante, da buona saison la porterei in tavola senza remore e, vista la particolare speziatura, la abbinerei con del pesce al cartoccio, con carni bianche e con formaggi erborinati. Se siete temerari, accostateci una pasta e fagioli.  [deLa]

venerdì 18 luglio 2014

Blauburgunder 2004, Sudtirol DOC, Weingut Klosterhof

di Daniele Tincati


Mi sono accorto che non ho mai parlato di Klosterhof e dei suoi vini.
Era un po’ di tempo che non ne bevevo.
Infatti questa bottiglia era finita nel dimenticatoio della mia cantina.
Non che sia grande da perdere le bottiglie, ma c’è poco spazio e tanta confusione.
Sta di fatto che cercavo qualcos’altro e mi è capitata in mano.
Per fortuna, perché dieci anni cominciano a pesare, anche se è ancora in splendida forma.
Due parole su Klosterhof vanno spese però.
La famiglia Andergassen vive a Caldaro e coltiva vigneti di proprietà attorno a casa, posto bellissimo, coniugando le due attività principali della zona: viticoltura e turismo.
Infatti hanno un Garni con piscina e giardino curato, meta ambita di turisti teutonici.
Ho conosciuto i suoi vini durante un tour in zona parecchi anni fa, forse la prima edizione della “Notte delle Cantine”, e me ne sono innamorato.
Messo a confronto con altri Blauburgunder, quella sera, non c’era storia, surclassava tutti per finezza ed intensità.
Il più borgognone di tutti.
Gli altri vini di casa sono i classici della zona, tra cui un Kalterersee, un Moscato Giallo secco, e un bel Pinot Bianco affinato in botti di acacia costruite direttamente da loro con l’aiuto di un bottaio del paese.
Un amico che è stato di recente mi dice che da poco la cantina è passata in mano al figlio e bisognerà quindi verificare la continuità con i vini del padre.
Vedremo…
Intanto mi godo questo 2004.
Granato trasparente, luminoso, con gemme rubino.
Bella consistenza, archetti lenti, lunghi ed eleganti, non troppo fitti.
Bella l’evoluzione nel bicchiere, in-fusione di spezie con qualche vegetalità.
E mi esce la nota di anguria, con un mix vegetale-fruttato, e qualche sbuffo terroso.
Assaggio affascinante, in perfetto equilibrio tra morbidezza e tensione.
Tannini finissimi e delicati, quasi un tutt’uno con il sorso, a suggellare una maturità perfetta.
S’è aperto con un roastbeef di cavallo ( o roasthorse che dir si voglia ) e patate arrosto.
Adesso non mi resta che un Riserva 2004.   

giovedì 17 luglio 2014

all'una e trentacinque circa



Questo è il primo post ispiratomi dalla mia breve carriera di spacciatore di vini, forse non è neanche il primo che tenta una fenomenologia della clientela ma avevo voglia di esorcizzare i miei dubbi e le mie ansie.

Nota bene:
Se vi riconoscete in qualche categoria non abbiatevene a male, i miei sono pensieri liberi senza alcuna volontà di giudicare, il primo degli “psicotici” è lo scrivente.

Gli adoratori dell’inconsueto (che non sono necessariamente rubricabili in una sottocategoria degli “entusiasti”)

Coloro che aborrono l’inconsueto (e perseguono la normalizzazione)
Sottocategorie: ricercatori dei difetti

I sospettosi cronici (se non assaggiano non comprano e raramente sono entusiasti di più di un vino su dieci assaggiati)
Sottocategoria: neofiti che non si credono più tali

I depressi cronici (il lavoro non gira, il vino non si vende, un tempo invece etc etc, dopo questi incontri di solito mi faccio una “Vecchia” nel bar a fianco al locale, buttata giù come fosse acqua di fonte e prenoto una seduta dallo psicologo)

I sèri cronici (chi non sa ridere non è una persona seria, disse un po’ di anni fa Chopin)

Quelli che se un vino non lo scoprono loro (o glielo segnalano le persone facenti parte di una loro ristrettissima cerchia di “illuminati”) non merita neanche di essere assaggiato (e comunque l’assaggio sarà drammaticamente viziato dal “pregiudizio”)

I lettori del lato destro del listino (i prezzi)

Quelli che “non ne conosco nessuno, quindi se non li conosco io, perché devo prenderli!” (non ditegli che informarsi serve per crescere e migliorare la propria professionalità, essi credono di aver raggiunto le massime vette del loro lavoro)

Gli entusiasti
Sottocategorie: dei curiosi entusiasti consapevoli e informati, degli entusiasti tout court (esco da questi incontri con un ego ipertrofico e la mente serena, grazie!)

Gli umili fiduciosi
Sottocategorie: fiduciosi incondizionati, fiduciosi neofiti che sfruttano i consigli per imparare e crescere (di solito si cresce insieme ed è bello e da soddisfazioni)

Gli scaltri commercianti (Uè capo! Mi chiedono dei vini senza solfiti, io in ‘sta belinata non ci credo, così come alle menate sul bio però me li chiedono, tu li hai?)

I bio talebani (solo km0, solo bio certificato meglio se biodinamico, poi scopri che comprano il bio leggendo si la provenienza ma sopratutto il lato destro del listino)

Quelli che non hanno ancora capito che se il telefono suona è buona cosa rispondere (almeno una volta all’anno)

Gli sciorinatori di grancrueannateeproduttorieterritorielaborgognaèsempreilmeglio, e chiedono in continuazione: conosci? (di solito non ne conosco nemmeno uno e mi deprimo)

E poi l’ultima strofa mutuata da Vinicio Capossela, All’una e trentacinque circa

E per ultima la strofa piu' dolente
quella ahime' sull'esercente
dietro il banco o nell'ufficio
intellettuale o ben vestito
lui guadagna sempre poco
tasse Iva e forniture
mamma mia quante paure
con gli incassi son dolori
per pagare i suonatori (fornitori ndr)
per pagare i suonatori (fornitori ndr)

Ridiamoci su! che “risus abundat in ore stultorum” ed io mi sento sempre stolto ma almeno ne rido



mercoledì 16 luglio 2014

Ammàno #1 Cantine Barbera in Menfi

di Rossana Brancato


Se sai leggere ed interpretare i messaggi dei tuoi vigneti, puoi assecondare l’istinto nell’alchimia della vinificazione.
Marilena Barbera ha aderito al progetto di valorizzazione dei vitigni autoctoni siciliani puntando sullo Zibibbo per i suoi campi sperimentali, irradiati dalla brezza e dal sole di Menfi (AG).
Un vino sognato, desiderato, pensato e con orgoglio può dire di averlo fatto non solo con amore, ma anche Ammàno.
Nulla di visionario, assoluto pragmatismo. 
La trasposizione delle consapevolezze in un vino che svela l’eclettismo dello Zibibbo.



Ammàno impiantato

Ammàno zappato le zolle

Ammàno vendemmiato

Ammàno pigiato

Ammàno diraspato

Ammàno fermentato

Ammàno follato

Ammàno svinato

Ammàno travasato

Ammàno imbottigliato

Ammàno etichettato

Ammàno incapsulato

Ammàno confezionato 

Ammàno.


E quando lo ricevi, lo scarti, lo contempli, senti che è proprio dalle mani di Marilena che l’hai ricevuto.

Lo Zibibbo è inconfondibilmente palpito di Sicilia, un vitigno che sa esprimere un vastissimo spettro aromatico, ma i consueti riflessi di albicocca e mandorla con questa esclusiva vinificazione, si aprono in una dolcezza balsamica solo al naso.
La freschezza ad emozionarti, anticipata dalle allusioni esperidate, la zagara e il bergamotto, il sorso s’impreziosisce di sapidità salmastra, senza amabile stucchevole monotonia.
L’ipnotica e sofisticata ombra greige del giallo assolato ti ammalia, ti fa attendere che qualche grado conquistato di temperatura ne sveli espressività in evoluzione.
I sorsi ti sintonizzano sulla frequenza delle onde e ti raccontano Menfi spostandone l’orizzonte.
La percezione dell’artigianalità te lo farà desiderare, ancora.




  
La mia bottiglia è la n°332 delle 490, Ammàno #1.

In attesa di Ammàno #2. 



Viticultori in Menfi
Contrada Torrenova S.P. 79
92013 Menfi (Agrigento) Italia
Tel. +39.0925.570442 
Fax +39.0925.78248

Rossana

martedì 15 luglio 2014

Birrificio La Piazza #vistadalode


di Vittorio Rusinà


Aperta da pochi giorni la "succursale" del Birrificio La Piazza in centro a Torino ha subito guadagnato mille punti nel mio cuore, sia per una american pale ale di propria produzione da urlo e sia per i suoi tavolini sotto gli alberi della Aiuola Balbo con #vistadalode sulle fontane, da mezzogiorno a mezzanotte tutti i giorni con cucina sempre in funzione. Se posso suggerire io metterei un piatto di pasta in menù.

Birrificio La Piazza, via dei Mille 20, Torino


lunedì 14 luglio 2014

Meloni d'inverno

di Rossana Brancato



Bisogna addentrarsi nei paesini di provincia siciliani per vederli ancora appesi ai balconi o gelosamente stivati su letti di paglia in cantina come le zucche, per assicurarsi succosa ambrosia sino a Natale.
Nettare dolcissimo e profumo delicato custodito nella polpa croccante, la varietà inodorus del Cucumis melo non ha fragranza percepibile dalla buccia come i retati e il cantalupo.

Il melone è una Cucurbitacea annuale, il fusto ha un portamento strisciante e tendenza a ramificare e ad aggrapparsi coi viticci ai sostegni, diventando rampicante.
Piante che hanno grande facilità d’ibridazione.
Nelle coltivazioni estensive si prediligono gli ibridi Madras, Campero e Helios, ma le cultuvar trapanesi Cartucciaru di Paceco e il Purceddu d’Alcamo grazie all’istituzione dei Presidi Slow Food, negli ultimi anni hanno ritrovato la linea pura del seme e dignità di mercato.

Le cultivar autoctone siciliane in passato, non superando la quotazione minima di 30 centesimi non venivano neanche raccolte, lasciate a fertilizzare i campi utilizzati come pascolo.
Non hanno particolare richiesta d’irrigazione, il terreno argilloso trattiene la quantità d’acqua necessaria allo sviluppo.

Nella sostenibilità delle colture e nella salvaguardia della biodiversità dovrebbero costituire le coltivazioni prevalenti.

Il melone bianco è acqua al 95%, la piccola quota glucidica apporta trascurabili 20 kcal per 100 g. Modestissime quantità di calcio, fosforo e vitamine. 

Frutto prezioso come idratante, da consumare preferibilmente fuoripasto, si può utilizzare per preparare confetture, gazpacho e sorbetti.

La mia "indole agrodolce" mi porta spesso a sperimentare connessioni tra ortaggi e frutta di stagione, l'ultimo esperimento mi ha convinta e segue la ricetta...




Chutney di melone e peperone giallo


500 g di polpa di melone
200 g di peperone giallo
50 g di cipolla bianca
50 g di zucchero Demerara
mezzo cucchiaino di semi di senape nera
anice stellato
50 g di zenzero fresco
30 ml di olio evo
peperoncino o Tabasco, sale q.b.




Lava il peperone, tagliarlo in falde, pelalo col pelapatate e poi riducilo a brunoise
Prepara il melone allo stesso modo.
Trita la cipolla, scalda in un tegame basso o in padella l'olio e fai tostare per un minuto la senape nera e l'anice stellato, aggiungi la cipolla e lascia cuocere a fiamma dolce coperto, controllando che non bruci. Incorpora il peperone e porta a cottura.
A fuoco vivace lo zucchero e fai caramellare, sfuma con l'aceto, lascia ridurre pochi minuti e aggiungi il melone. 
Mescola spesso, in quindici minuti circa otterrai una composta densa. 
Profuma con lo zenzero fresco grattugiato, regola di sale e peperoncino.



Lascia riposare in frigo per un paio d'ore prima di utilizzare il chutney, per l'ideale armonia dei sapori.
Abbinalo a formaggi stagionati e ai bolliti.


Rossana

venerdì 11 luglio 2014

la cuite, il gatto nero e il banco. il nuovo, la storia e il contemporaneo. a torino sotto un cielo di piombo fuso

1°tappa

La Cuite
Siamo in tre, seduti ai tavolini di ferro de La Cuite, una bottiglia di Champagne di Demarne Frison e dei tacos piccanti, fuori come in un Blade Runner sabaudo piove, una cortina d’acqua oscura le vetrine, chiacchiericcio assordante.
Siamo a San Salvario il quartiere dalla movida e delle multietnie torinesi, Alessandro Gualano patron del locale, si muove come un furetto e mesce birra, vino, cocktail, i ragazzi e ragazze di sala scivolano agili fra i tavolini.
Si sente pulsare una vitalità pazzesca, rumori, brandelli di discorsi aleggiano nell’aria, si percepisce una sensazione di evento tribale officiato da una comunità variegata e ondeggiante.
Qualcosa a metà fra una musica tecno e i canti degli sciamani.
Ci si perde, aiutati dall’alcol, in una espansione sensoriale.
Il locale recente ma non recentissimo è un luogo cult per l’aperitivo e le chiacchiere.
Impossibile non incrociare volti noti.
Beviamo e parliamo e festeggiamo e il vino è il medium della convivialità, un grimaldello che rompe le corazze che tutti noi indossiamo ogni giorno per proteggerci dall’ambiente esterno.
Usciamo, abbiamo appuntamento con il quarto commensale al Gatto Nero, strisciamo lungo i muri ottocenteschi per evitare il monsone che imperversa sulla città, una persona ci guarda, da un balcone verandato con teli di plastica e tende verdi, irto di bandiere e vasi di fiori come dalla cabina di pilotaggio di un esausto peschereccio alla deriva.
Il nuovo

2°tappa

Il Gatto Nero
La storia della ristorazione torinese, nato nel 1927 (in un'altra sede) si è spostato in un brano di città figlia del boom economico.
Porta in legno massiccio, nessuna movida, un tranquillo quartiere residenziale austero e kitch come sanno essere le città contemporanee, figlie dell’espansione continua, incontrollata e fiduciosa nei mezzi umani, tecnici e economici.
Ci apre Andrea Vannelli, terza generazione alla guida del locale, in giacca bianca, immacolata, dall’abbottonatura alta da cui spunta una cravatta, di un eleganza d’antan, l’ambiente è silenzioso, emana professionalità e buon gusto.
Andrea e Gil Grigliatti (prendetevi due minuti per leggere anche il suo post di ieri) ci raccontano della grande influenza che questo ristorante ha avuto sulla ristorazione torinese, una storia di altri tempi, tempi lontani ormai (adesso due anni pesano come ere geologiche) di quando i Vannelli erano venuti al nord da Altopascio e hanno costruito ed insegnato ai torinesi una cucina fatta di leggerezza e olio e pesce e carni che ha dato uno scossone alla tavola tradizionale torinese.
L’insalata calda di mare ne è un esempio (un piatto copiato da tantissimi ristoranti della città) e noi con quella abbiamo iniziato il percorso, da commozione! Baccalà mantecato con patate dai sapori nitidi ed equilibrati, gli spaghettini “alla Peppino Fiorelli” (cantante napoletano che veniva a Torino per registrare le sue canzoni all’EIAR ora RAI che nacque proprio a Torino, all’ombra della Mole) e che dire dei paccheri al ragout di costata lungamente cotto e ridotto alla quintessenza dei sapori carnei, le patate a fiammifero che mi hanno ricordato quelle di Balthazar a New York.
La cantina di Andrea è una miniera da cui compaiono un metodo classico sardo di vernaccia e nuragu Marzani e poi Chateau Musar 91 bianco e un 97 rosso per finire con Vermouth americano "Veiturin" Marenco degli anni ’50, moscato passito Cinzano anch’esso del 50, moscato di Siracusa di Mansio.
Stupiscono (non dovrebbe essere così ma spesso all’accoglienza si dedica poca attenzione) la competenza in sala, il servizio attento ma disinvolto senza affettazione.
Merita un cenno l’arredo progettato da un giovane Pietro Derossi architetto torinese, mio docente al Politecnico di Torino a cui devo molto della mia formazione e approccio all’architettura. Pareti in mattoni a vista, banconi in legno e acciaio inox e ferro con sedute integrate, schermi, balaustre cesellate su misura per gli spazi del locale, il soffitto della sala contiene, integrandolo, l’impianto di condizionamento e le bocchette di aspirazione dell’aria sono su disegno (uno dei primi casi di progettazione totale degli interni sia architettonici sia tecnici), sedie danesi di una eleganza incredibile.
Un progetto globale che andava dalla progettazione architettonica, agli arredi, alle ceramiche, alla cucina ispirato dalla volontà di questa famiglia di offrire il meglio per i propri clienti.
La storia

3°tappa

Il Banco vini e alimenti
È appena finito di piovere la città è lucida come l’acciaio e dopo il Gatto Nero ci dirigiamo verso il cuore romano di Torino.
Del Banco sapete tutto: si beve, si mangia, si compra per asporto vini e alimenti.
C’erano Fabrizio Iuli e Paolo Veglio la meglio gioventù del vino piemontese, non è raro incontrare produttori che tirano tardi da Pietro e Andrea.
C’erano anche altissimi e biondissimi e anglofoni dee jay reduci dal Kappa FuturFestival.
L’occasione giusta per bere ancora qualcosa chiacchierando con i “reduci della notte” ed infatti escono come conigli dal cappello una Vigneron di Cantillon, un Ansonaco 12 di Carfagna e una Besiosa 13 di Crocizia.
Consumate all’aperto, appoggiando i bicchieri sulle sedi impilate e pronte per essere rimessate, malgrado l’ora tarda e la molestia di noi avventori, Irene Carfagna (si avete letto bene! Lei è la figlia di del produttore dell’Ansonaco) scivola come su binari oliati di simpatia, cortesia, professionalità, una parola per tutti e mai un cenno di stanchezza nel volto o un irruvidimento dei gesti, chapeau! Il miglior acquisto del Banco!
Stare al di là del banco non è un ripiego, un sublavoro ma è, se lo si fa bene, una professione complessa  che deve nutrirsi di vocazione, competenza e allegria.
Il contemporaneo