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mercoledì 30 aprile 2014

Banalità assortite intorno a due temi a me, un tempo, cari e spesso citati a sproposito, un po’ da tutti

Tapio Wirkalla 1968, Venini

Sarò breve.
Sostengo da tempo che i vini bianchi  vadano bevuti non prima del compimento dell’anno.
Spesso dico (e con me molti che sfido ad aver fatto la mia stessa esperienza a meno che non siano dei produttori o selezionatori) che un vino ha subito un positivo, graduale miglioramento durante la sua permanenza in bottiglia ma l’esperienza di cui vi narro è la prima che mi è capitata con così tanta significanza!
Come sapete da poco più di un anno la mia passione è diventata lavoro (non il blog! Ora per lavoro vendo vini), per cui con la sfrontatezza del neofita ho deciso che sarei stato in grado non solo di vendere quelli selezionati da altri ma anche che sarei stato in grado di selezionarli io stesso!
Una erezione dell’enoego un po’ eccessiva e di cui ogni giorno mi pento.

Antefatto
Dunque sulla fiducia (fiducia riferita agli assaggi del millesimo 2011) ho acquistato una quantità di un vino bianco del 2012 anche se non era come quello precedente.
Dopo di che sono andato in paranoia totale, i successivi assaggi sembravano mostrare pochi miglioramenti se non addirittura dei piccoli ma significativi peggioramenti.
“Le analisi però parlano chiaro il 2012 ha parametri migliori del 2011 che è stata anche una annata calda e difficile” questo mantra non mi tranquillizzava molto.
Con cadenza quindicinale assaggiavo e per due mesi succede poco o niente, anche se, forse qualcosa si muoveva in positivo ma non tutte le bottiglie erano uniformi, alcune spumavano come dei metodi classici.
Paranoia completa.
Il 2011 era un altro vino!
Maledizione alla mia boria!
Però, a mia parziale discolpa, il 2011 lo avevo assaggiato a maggio/giugno 2013 mentre questo (il 2012) lo sto tastando già da fine 2013 inizi 2014 con poche settimane di bottiglia (inoltre ha anche subito un affinamento in vasca più lungo del precedente, quindi almeno un mese e mezzo in meno di bottiglia).
Disperazione.
Ad alcuni non piace!
Cavolo! Devo venderlo, mica collezionarlo!
Continuo ad assaggiare (me ne resterà poco da vendere, ahimè!), sino a che a inizio Aprile c.a. pare che il bruco stia diventando farfalla e in degustazione comparata col fratello, a parte piccole sfumature organolettiche, sembra esserglisi avvicinato come un ciclista che affronta la salita col suo passo, piano ma inesorabile e riprende il fuggitivo ormai spompato.
Io ho creduto molto in questo vino e penso che sarà un grande vino, migliore del millesimo precedente.
Ma non ne sono ancora del tutto sicuro e i patemi d’animo che mi ha dato questa esperienza li avrei risparmiati oppure, volentieri augurati al mio peggior nemico.

Dimostrazione
I vini bianchi* non devono essere bevuti troppo presto, perché maledizione loro, crescono tantissimo durante la permanenza in bottiglia!
Kempè

Luigi 

Ps
Vi dico che vino è solo se me ne ordinate 24 bottiglie con spedizione a vostro carico!

Pps
Non ho dormito per questo problema ma devo dire che è stata una esperienza molto formativa


*lo so che è una fottuta generalizzazione ma ci piglia al 90% soprattutto nel caso di vini “vivi”.

martedì 29 aprile 2014

Villa Favorita 2014 punto per punto.

di Riccardo Avenia.

Nutro grande stima per Angiolino Maule, fondatore di VinNatur e per tutti i soci aderenti. Un'associazione che ha lo scopo di promuovere il vino naturale, unica nel suo genere. Unica per la ricerca, per la sperimentazione, ed il controllo, che pone grande attenzione e rispetto verso le tradizioni territoriali. Sì perché per diventarne membri e per prendere parte a Villa Favorita, bisogna sottoporre i propri vini a degli assaggi ed a successive analisi volti a stabilire l'assenza di circa 120 tipi di pesticidi e prodotti di cantina. È forse per questo motivo che, di anno in anno, alcuni partecipanti spariscono e ne subentrano dei nuovi? E la domanda che allora sorge spontanea è: perché le altre fiere dei cosiddetti naturali, questi controlli non li fanno? Un progetto - quello di VinNatur - che non si limita solo a questo. Per chi non lo conoscesse, consiglio l'approfondimento qui.


Villa Favorita dicevo. Ormai per me è una certezza: la vista della maestosa villa all'arrivo, l'accoglienza, il ritrovarsi a casa tra i vari locali interni (forse la prima volta, è un poco più complicato), gli amici (di qua e di là dal banco), l'immenso giardino (che se c'è il sole, sdraiarsi è un vero spasso) e quell'atmosfera un po' naif, che tanto piace a noi #amicidelbar. Ecco, magari aggiungere uno spazio con dei tavolini dove sedersi comodamente e "spezzare" le degustazioni con un boccone, non sarebbero male. Cose forse banali, ormai lette e rilette, ma realmente vive, come il vino che si mesce e si assaggia.





- Le 6 fondamentali cose da sapere prima di entrare alle (ormai note) fiere satelliti -

1) Potrebbe sembrare che questa sia una festa, mentre in città, a Verona, ci siano i grandi a fare i numeri: sciocchezze. Così ci si collega al punto 2;

2) Perché oltre alle domande sui processi di vinificazione (ne ho sentite di veramente banali), ed affinamento, basterebbe chiedere ai produttori cosa ne pensano della fiera, se hanno un reale riscontro e quali siano i vantaggi nell'essere socio aderente di VinNatur, per capire che qui i numeri ci sono eccome e che gli affari si fanno alla grande;

3) Guardatevi attorno, probabilmente quello che si aggira con la camicia a scacchi, è un commerciante, un agente o un gestore di qualche locale che in questo ambiente naif, si sente a casa. E solo al pensiero che, il giorno successivo - quello in città - dovrà mettersi la cravatta e sentirsi "ingessato" per tutto il giorno, già si sente male. Benvenuti nell'età dei figuranti, disse un tale. Bene: usciamone!

4) Basta dire: "quest'anno si è bevuto meglio alla fiera X piuttosto che a quella Y". Qui ad esempio c'erano più di 140 produttori; calcolando una media di 3 etichette cadauno, siamo sulle 420 etichette. O sei SuperManWine, o stai semplicemente dicendo la solita frase di circostanza. Poi magari fai come me, che ho assaggiato il Magma di Cornelissen e, subito dopo il bianco rifermentato di Les Vignes de L'Ange, solo perché era il suo vicino di tavolo, trovando quest'ultimo sotto tono. Un vero professionista!



5) Basta dire: "quest'anno ci si muoveva meglio alla fiera X piuttosto che a quella Y o Z". Sono affermazioni soggettive. Certo che se parti dalle bollicine, per salire con una millimetrica scaletta di degustazione tra struttura, alcool e colore, allora non meravigliarti se hai trovato sempre confusione, fanno tutti così. Magari sei anche entrato in fiera alle 11:00 e te ne sei andato alle 15:00;

6) In queste occasioni, giudicare con fermezza organolettica il vino e battezzarlo definitivamente (nel bene o nel male), è da veri esperti mutanti dal gene X del settore. Io mi limito semplicemente a dare dei consigli, ma sono il primo a cercare successivamente il vino e risentirmelo attentamente in altre occasioni, prima di sparare sentenze.


- I miei foto-assaggi -


Quest'anno ho cercato di uscire (non al 100% devo ammettere) dalle strade ormai battute in altre occasioni (qui e qui), per conoscere nuove realtà e far scoppiare in me nuovi interessi. Certo, passare a salutare Frank Cornelissen, è ormai un obbligo. Uno, per assaggiare l'ultima annata uscita dei suoi vini a fascia accessibile, fantasticando di comprarne a cartoni. Due, per bere il Magma, ormai inarrivabile per le mie tasche.


Travolge di passione ascoltare la madrina di casa Tarlant, che con i suoi Champagne, mi convince e mi galvanizza sopra a tutti i suoi simili.


Le novità da seguire, ci sono state e si chiamano Carlo Tanganelli, con due bianchi a base trebbiano, macerati sulle bucce: l'Anatrino e l'Anatraso, veramente ben centrati sulla tipologia, ed il rosso Mammi, un sangiovese in purezza, da vigne giovani, che per la loro qualità, distacca gli altri fratelli e rientra come migliore assaggio. Ed il Monastero dei Frati Bianchi, con tre rossi da monovitigno, quali il Deir (syrah), il Tazzara (barsaglina), ed il Pollera, dall'omonimo vitigno, il quale mi ha persuaso e soddisfatto maggiormente per complessività e messa a fuoco.


I bianchi più spassosi, diretti e lineari, ma mai banali e le etichette più belle che abbia visto, provengono invece dall'Austria. Più precisamente da Andreas Tscheppe, con una batteria di vini da vitigni moscato, sauvignon e chardonnay, davvero commoventi.

Il colfondo di CasaBelfi, disseta e ci fa gioire di freschezza, mentre ci riposiamo sdraiati nel prato.
Invece Il sangiovese DoDo, di Taverna Pane e Vino, mi fa esultare per ampiezza e mostruosa tipicità gusto-olfattiva, un vero cavallo di razza, vinificato parzialmente sui raspi ed affinato in piccoli legni. Fortunatamente a Cortona ci sono spesso!


Lamoresca esce con un frappato in purezza, il Nerocapitano, tutto frutta e sorso killer che, bevuto fresco in una calda estate, probabilmente ricompensa qualsiasi impegno. Anche se il cavallo vincente, resta per me il Lamorescsa rosso.

Dai colli fiorentini, li Casale, esce con una gamma di vini che trasudano di territorio ed incredibilmente vivi; come il trebbiano 2004 ed il Chianti riserva 2005, veri e propri gioielli a prezzi estremamente onesti.

La Francia che mi piace, l'ho trovata invece in questi tre vini, che in futuro seguirò con attenzione: il Grolle Noir 2012, dall'omonimo vitigno, vinificato sui raspi, di Cyril Le Moing; il gamay Le Poquelin 2012 da macerazione semi-carbonica del Domain des Cotes de la Moliere di Isabelle e Bruno Perraud, e Les Mortiers 2010, pinot d'aunis, di Nathalie Gaubicher. Tutte bottiglie grintose, varietali e dal frutto godibilissimo. 



- La cena con i produttori -

Quest'anno, assieme a Luigi e Daniele, ho partecipato alla cena dei produttori. Una bella occasione per conoscere e dialogare in maniera più distesa e conviviale, con loro. Oltre che ad assaggiare e discutere dei loro vini, ho avuto modo di toccare argomenti che solitamente ai banchi d'assaggio non si sfiorano: si è parlato di burocrazia e di quanto, a volte, sia inutile. Di severi controlli, effettuati anche due volte da diversi enti, i quali sembra non si parlino tra loro. E di tutti quei piccoli problemi gestionali, che quotidianamente si presentano. Insomma, ho avuto un quadro ben più ampio, che mi ha fatto capire quanto rispetto dobbiamo portare a queste persone ed a quel tanto amato calice di vino.




Ma tornando agli assaggi - se non fosse stata per questa cena, mi sarei perso tre validissime realtà - ho   conosciuto Tenuta Terraviva (che in verità conoscevo marginalmente: il loro Trebbiano d'Abruzzo in una orizzontale alla cieca, arrivò secondo; non so se mi spiego), che in questa occasione ci ha sorpreso con il Solobianco, un mix di trebbiano, malvasia e chardonnay, per un vino gustoso, dinamico e dalla beva pazzesca, ed il Cerasuolo d'Abruzzo "Giusi", floreale e diretto come pochi.


Da Bratislava, Slovacchia, incredibilmente arrivano i ragazzi di Organic, con un Orange wine, la Cuvée Marie Vallis Albus di vero gusto, che rispecchia in pieno i parametri della tipologia, senza sfociare in nessuna banalità. Ed un rosso da uve pinot nero, forse più semplice, ma dal frutto intenso e vivo di sapore.




Per finire (questa volta davvero), il vino che mi ha colpito maggiormente, proviene da Montespertoli (Fi) - nella zona allargata del Chianti - da un antico vitigno toscano recentemente riscoperto, il Foglia Tonda 2010 di Guido Gualandi (persona schietta e beffarda); vinificato con i propri raspi ed affinato in botti, per un vino complesso, sorprendente e dalle grandi dinamiche gusto-olfattivi, nonché dalla lunga prospettiva di vita. Insomma, mi sono trovato di fronte ad un grande vino.


Quella di quest'anno, è stata una personale e completa esperienza, ricca di nuovi spunti sotto ogni profilo.

lunedì 28 aprile 2014

Colombera & Garella, Cascina Cottignano a Masserano

di Niccolò Desenzani

Parlare di Masserano, di Bramaterra, di Coste della Sesia ha per me un sapore unico. Sono i luoghi della mia infanzia sia biografica che enoica, essendo proprio questi i primi vini assaggiati, durante i pranzi pasquali e natalizi dove si celebrava il senso ampio della famiglia.
E di un Bramaterra fu la mia prima recensione pubblicata sul web.

Da anni ricerco vini per raccontare questa denominazione, scarsa di interpreti e in questi ultimi decenni lontana anni luce dalla ribalta (nonostante una storia documentata dal 1400!).
Per quelle strane vie della vita ne ho trovato uno, sabato scorso, e non grazie ad una mia scoperta, ma una di Armando Castagno che, qualche settimana fa a Stresa, in occasione della manifestazione G&G
dedicata alla presentazione e degustazione dei vini dell’Alto Piemonte, ha assaggiato questo vino e ne è rimasto così colpito da scriverne subito alcune note sulla propria bacheca FB.


Finalmente sabato prepasquale ho raggiunto Masserano. Ho imboccato quella famigliare deviazione che indica Cascina Cottignano e poche centinaia di metri dopo ero in una valletta su un costone, dove dimorano una manciata di vigneti contornati da boschi.
Ecco la Cascina, in mezzo a poco più di due ettari di filari, divisi in tre/quattro appezzamenti.
Uno, declinante dal ciglio della strada, ospita piante vecchie e molto vecchie nella tradizionale composizione di nebbiolo, croatina e vespolina. Appena sotto la casa un vigneto in cui il nebbiolo è di una varietà peculiare con chicchi più grandi e da cui nasce un bel rosato. Un po’ oltre un vigneto più giovane di un ettaro piantato nel 1998 nel rispetto delle proporzioni bramaterresche e infine una vigna abbastanza vecchia sull’altro lato della casa. L’orientamento è ovest sud ovest.
Poi ci sono delle viti a Roasio, pochi chilometri in direzione Gattinara: un unico appezzamento di cinque ettari in mezzo ai boschi, che fu di Morino Perazzo, uno dei vecchi viticultori della zona, e da cui nasce un Coste della Sesia da suoli sabbiosi gialli, su rocce vulcaniche e alluvionali di base porfido. Acidissimi. Qui invece siamo su suoli argilloso-sabbiosi sempre su base porfirica, ferrosi, anch’essi molto acidi (Ph 4,8). Dove si riconoscono agglomerati quarzosi.





Carlo Colombera, originario di Lessona Castello, che lavorava in Baraggia  in mezzo alle risaie, decide all’inizio degli anni '90 di trasferirsi a Masserano e si appassiona alla viticultura, che impara da Antoniolo.
Quindi il figlio Giacomo, classe '92, che ora studia ad Alba, praticamente è nato e cresciuto con l’Azienda.
Cristiano Garella, un nome una sicurezza, per molti anni si è occupato del winemaking di Tenute Sella, azienda storica della zona, con sede a Lessona e una produzione che ricopre tutte e tre le denominazioni locali: Coste della Sesia, Bramaterra e Lessona.
Qualche anno fa Cristiano e Giacomo, che credono nel territorio, decidono di unire le loro esperienze, con il “patrocinio” di Carlo, e iniziare un percorso di eccellenza, alla ricerca della miglior espressione possibile del territorio, partendo dalle migliori piante di Carlo, che in questi anni le ha coltivate con la massima cura, in un regime naturale de facto, dando alla luce vini che già si staccano qualitativamente da molte produzioni della zona.


Nasce quindi Colombera e Garella “Cascina Cottignano”, che finalmente nell’autunno 2013 imbottiglia i primi due vini con la nuova etichetta: Coste della Sesia 2011 e Bramaterra 2010.
.
Garella, ch’io conobbi a Laterratrema qualche anno fa, è un vulcanico enologo e viticultore (per aziende fino alla Sicilia) con un attaccamento alla zona di Masserano che lo ha portato a sperimentare in questi anni con una propria microproduzione di eccellenze da vigne recuperate da anziani del paese.
Giacomo è pieno dell’entusiasmo e del rigore dello studente che sa già dove sta andando e
Carlo mi ha colpito perché trasmette generosità e fiducia nei due ragazzi e nella loro missione di restituire al territorio un posto di rilievo. Ha esperienza, piedi per terra e una bella vena di idealismo che lo spinge alla convinzione che il vino del territorio debba essere accessibile alle persone del territorio. La cosa mi è piaciuta assai.
I due ragazzi sanno però che la riconoscibilità del lavoro naturale in vigna e in cantina ha bisogno di un po’ di ribalta, di fiere, di un circuito mediatico. Saranno alcuni esponenti di ViniVeri a invitarli a esporre a Cerea.


Sabato ho respirato umiltà e intelligenza, affetto paterno e fierezza. Per non parlare della gentile accoglienza. Il luogo ha una sua magia, anche se visto in mezzo alla pioggia.


I vini nascono in cemento. Due belle botti recuperate da un commerciante langarolo che vengono usate per vinificare e per rifinire i vini. In mezzo trascorrono un periodo più o meno lungo in vecchie barrique. Il progetto è quello di aumentare i volumi delle botti un po’ alla volta.
Per ora dunque due territori, due vini. Anche se si affaccia una nuova produzione di Lessona, da nuovo impianto del 2006,  ancora atto a divenire.




Il Bramaterra 2010 ha finezza e freschezza e sapori nobili. Una vera bontà. Il naso è tout en finesse, fruttini confit. Dritto al carattere della denominazione, che sorprendentemente il legno piccolo ben usato fa emergere delineata e netta. La bocca coniuga i tannini appena seri di Masserano con una freschezza disarmante. Si compone il gusto in una caramella di fruttini, attraversata da sapidità ferrosa abbondante. Zuccheri di canna, scorza di arancia amara, col succo rosso. Una caramellosità che proietta nell'empireo della goduria infantile, trasposta nella bevanda dell’età adulta.




Il Coste della Sesia 2011 è un’espressione veritiera del territorio come io me lo rappresento dopo tanti assaggi. Il tannino è già domato e anche in questo caso il vino è di buona freschezza. Un po’ più rotondo, ma meno verticale del Bramaterra, mantiene un naso intrigante, ma soprattutto alcuni sapori sottili e incisivi in bocca, che denotano bene uno stile di vino preciso e fine, ma molto beverino.


In entrambi si percepisce una mano tecnica sicura che sa cosa vuole ottenere. Forse fra i due vini il Coste è quello che guadagnerebbe di più dalla botte grande, ma è solo un’ipotesi la mia. Di certo il Bramaterra non soffre il legno piccolo, nonostante non sia esattamente tradizionale nella zona. In questi giorni, in un’ondata di corsi e ricorsi nell’utilizzo dei termini, ho letto spesso di beva “scorrevole”. Beh qui la scorrevolezza è di casa.

Buono anche il rosato 2013 (che mantiene l'etichetta aziendale classica della Cascina) da salasso, senza malolattica; naso suadente, ma la bocca per nulla ruffiana, che mi ha fatto pensare a una base per un MC. Già ora godibilissimo, ma credo che fra qualche mese, nella calura estiva, sarà un gioiello di dissetanza.

giovedì 24 aprile 2014

ZANG TUMB TAFON

In girum imus nocte et consumimur igni vino


di Eugenio Bucci


non so se Stefano Legnani sia un neo avanguardista mosso da uno spiritello anarcoide e sospinto dallo spirito del tempo (o Zeitgeist), 
Zeitgeist che fa sembrare questo inizio 2014 ad un inizio '900 ma un po' più cupo e, facendo i dovuti scongiuri, cazzone e
fatto sta che Tafon 2012 è un vino dada con un pizzico di futurismo e una spolverata situazionista, nel senso che spiazza e crea cortocircuiti come un orinatoio capovolto e firmato, spiazza e crea un momento di vita concreto e deliberato e amplia la parte non-mediocre della vita, spiazza e distrugge e crea un nuovo/antico trebbiano (così come spiazzano, distruggono e creano nuove suggestioni su quest'uva nelle sue 100 diramazioni genetiche persone come Maule, Bragagni, Mattioli, etc), trebbiano che viene dalla bassa mantovana e (di)viene una deriva psicogeografica dove noi e la nostra psiche vaghiamo senza meta in un ambiente di architetture mentali che ghettizzano, inscatolano, catalogano vini e vitigni e aree e persone in terroir e scale di merito (o "qui non si può fare", "questa uva non va bene") e veniamo liberati, emendati, straniati perché 

TAFON/Schiaffo decostruisce la nostra Città Del Vino e ricostruisce e porta con sé la mutazione continua, la libertà della mobilità del pensiero e del sapore, 
Tafon 2012 ti strania e costringe a guardare in basso, in fondo al bicchiere, ad affogare in un bicchiere e (intra)vedere la terra e l'architettura naturale delle sue piante, ad annusare una nota sulfurea Diavolina e poi il verde linfatico e poi un frutto dolce/asprigno alkekengi e/o prugna verde e/o uva spina e antani e cippalippa e tutto il corredo rugoso della buccia che dà un nerbo, uno scheletro su cui costruire il suo divenire altro, miseria e nobiltà shakerate insieme coi suoi rimandi terrigni alle erbe povere di campo, alle spezie d'oriente e vagare in un suq 
e ad assaporare un liquido che confonde nella sua consistenza bassa, umile, e nel suo vertiginoso equilibrio dolce/amaro-acido e nella integrità (che vorrà dire ormai?) di frutto stile mordo-un-acino-e-chiudo-gli-occhi, a prendere la bottiglia e inclinarla e leggere la firma

Legnani Stefano, Sarzana 2012

e, chiaramente, Ceci N'est Pas Une Bouteille 


mercoledì 23 aprile 2014

1 Barolo in 3 mosse

di Vittorio Rusinà


I Torinesi non bevono Barolo, bevono Barbera e Dolcetto, a volte ne tengono una bottiglia come reliquia nella vetrina del mobile in soggiorno "è del 1968 annata eccezionale" a volte ereditano bottiglie polverose dalle cantine dei nonni, ricchi professionisti, ma no non le bevono.
Ho passato una vita nei ristoranti e nelle trattorie della mia città, mai una volta che mi venisse chiesto "Barolo?" ma sempre e solo la litania di "Barbera o Dolcetto?" e mai ho visto ordinare Barolo, solo una volta al Consorzio da un signore della politica torinese. Una bottiglia che costa in cantina sui 35 euro, che viene venduta in enoteca sui 50 euro, quanto potrà costare al ristorante e chi potrà permettersela? Il prezzo è alto anche considerando tutte le "varianti".
Ma allora chi beve il Barolo, a parte gli americani e i tedeschi, chi beve il Barolo non tanto per sfoggiare potere? Chi beve il Barolo per amore? Sorpresa gli amici emiliani del Bar: Andrea, Riccardo, Daniele ne vanno pazzi e quando vidi le loro cantine quasi svenni dal numero di bottiglie di Barolo presenti e dalla stima che portano verso un vino della mia terra.
Dovevo rimediare.
Prima mossa: trovare un Barolo "naturale", cosa non facile purtroppo la quasi totalità dei produttori anche quelli famosi hanno scelto una strada molto kimika in vigna per non parlare di scelte non in linea alla tradizione in cantina, fra i pochissimi a salvarsi il mitico Giuseppe Rinaldi.
Seconda mossa: scovo dagli amici di Bibendum enoteca in centro a Torino una bottiglia di Barolo Cannubi San Lorenzo - Rovera 2009 di Rinaldi, sta a 50 euro, tratto un piccolo sconto, mi butto in ginocchio, è Natale ragazzi vi supplico siate buoni, ok è fatta, la compro.
Terza mossa: attendere l'occasione che si presenta nel giorno di Pasqua con il ritorno a casa di mio figlio da un viaggio in Marocco, deserti e kasbah "avrà bisogno di un nettare corroborante" poi mi accorgo che questa è solo una scusa.

E' Pasqua, h. 14, apro la bottiglia, tappo perfetto (fiuuu è andata) verso due dita nel calice per la prova, dopo una decina di minuti metto il naso dentro, incenso e rosa. Passo tutto il pomeriggio a fare micro-assaggi che condivido su facebook:
-adesso un profumo di foglie di menta, camomilla, fresco in bocca, grande beva, nessuna chiusura, va giù che è un piacere, scalda il cuore
-incredibile al naso si apre e si chiude, vivo estremamente vivo
-mangio qualche pezzo di cioccolato fondente che trovo perfetto con questo vino
- un profumo di corteccia che si stacca dal tronco, resina
-rosmarino lo sento venir fuori dietro le foglie di menta che persistono però mai invadenti
- fiori, ci sono fiori ma non so il loro nome
E' Pasquetta, pomeriggio, torno ad assaggiare:
-ecco i terziari, la silice, un filo di zolfo
-un velo di polvere in bocca, con il bitter di radici, rabarbaro, in perfetto equilibrio con il frutto e l'alcool, terroso e ferroso
-quasi china
-sangue di terra e di botte
L'ultimo sorso alle h. 18 è il più buono.
W il Barolo, W Giuseppe Rinaldi, ché la naturalità torni a brillare in terra di Langa!


Grazie a Fabio Molinari, gran barolista emiliano, per il supporto su facebook durante la degustazione.



martedì 22 aprile 2014

5 motivi per andare alle fiere dei naturali

di Niccolò Desenzani


Credits to AVN


Mi accodo alla tendenza del momento, che è di parlare delle fiere del vino naturale con massima generalità dando giudizi tanto arguti quanto vacui (vado meglio in quest’ultima, ma mi sforzerò di prender la sufficienza nella prima).
Non si è mai registrata una frequenza di fiere ed eventi così alta come in questo autunno/inverno.
E la cosa continua e sconfiniamo in primavera.


1) Dicono che siamo sempre gli stessi, noi e i produttori. Ma è un fatto che nessuna di queste fiere abbia registrato poca affluenza.
L’accesso al vino naturale è
democratico ed esclusivo allo stesso tempo, com’è tipico delle mode.
Cioè fa figo parlare dell’ultimo MC di tizio e del noso2 di caio, esibire un curriculum da veterani, criticare il vino naturale “da dentro” e celebrare i vini buoni e sparare a zero su altri “ché di vini naturali ce ne sono di entrambe le tipologie” incredibile
dictuvisuque.

2) Ma è tutto facile, si prende la macchina, si paga il biglietto e si può anche comprare a un prezzo che non è il Prezzo Sorgente (argh! cazz! è una cosa indegna!), ma non è nemmeno quello degli enotecari di città. E poi rompono i c… a Filippo Ronco per il suo Grassroots Market!
Roba da matti.

3) Comunque sia, anche se il temibile TOPOCOTICA è sempre in agguato, alle fiere del vino naturale si consuma un rapporto fra enostrippati e produttori che è bello, amorevole, pacifico e, credo, di mutua soddisfazione. Si veicolano idee forti, visioni di decrescita felice, di alto artigianato, di recupero di un rapporto colla natura un po’ meno schizoide e si definisce un po’ alla volta il vino naturalartigianalbio… italiano (esisteva anche prima, ma la comunicazione, si sa, è tutto ;-)). 

4) Credo inoltre che queste fiere creino delle
opportunità di scambio di esperienza fra produttori e questo è sempre e comunque un dato positivo.


E a chi pronostica la fine della “moda dei vini naturali” rispondo: è solo l’inizio. Qualità, eticità, accessibilità,
divertimento… continueranno a far girare questo piccolo enomondo.
Che poi tanto piccolo forse non è più.

Stay thirsty, stay natural e occhio al brettanomyces!

Nota. Chi ha letto in anteprima questo post un po' cretino ha sofferto che, denunciando la genericità di altri sullo stesso argomento, io abbia poi adottato lo stesso schema e che passi l'idea che "a parte qualche vino puzzone, e qualche truffaldino, i vini naturali sono buoni e giusti". Difficile non dire banalità, ma non commetterei l'errore di svuotare di senso il termine "vini cosiddetti naturali" o "vini naturali". Si tratta di un fenomeno, ed è qui che spero il post sia centrato, che parte sì dal vino, ma va ben oltre in termini di comunità sociale. Che significa condivisione, apprendimento, confronto, divertimento, emozioni et cetera. Inoltre non commetterei l'errore di sottovalutare questo submondo enoico arguendo dal suo peso percentuale nel mercato, perché io credo che la "leva" sia molto vantaggiosa e quel poco percento influisca non poco nei trend.


venerdì 18 aprile 2014

I 5 motivi per cui parlare del terreno è di solito un meccanicismo banalizzante*


Di ritorno da Verona (Vinitaly e altre fiere offsalone) mi risuonavano nella testa le indicazioni dei produttori sui suoli nei quali le vigne affondano le radici, argille, argille calcaree, marne bianche, marne blu, scisti, ciottoli alluvionali, basalti, terreni vulcanici, sabbie, arenarie calcaree, tufo.
Un esempio lampante sono i Riesling di Clemens Busch vinificati per singola parcella caratterizzata da terreni differenti.

Sicuramente ne dimentico qualcuno, la varietà dei terreni è elevatissima ma non è mai un banale rapporto di causa ed effetto che caratterizza un vino in base al suolo su cui poggia il vigneto.
I produttori non accennano mai al fatto che le piante non hanno possibilità di acquisire oligoelementi con il solo apparato radicale.

1) Quindi le piante non reagiscono al suolo ma solo ai livelli di umidità presenti in esso, infatti è possibile allevare piante in sola acqua senza supporto del terreno.

2) Quindi è abbastanza inutile parlare di suolo che è una sostanza inerte.

3) A meno che non si parli di humus presente il quel suolo, di quanto è ricco il consorzio microbico presente nel terreno, di quanti funghi simbionti ci siano e di quanto essi espandano la capacità assorbente delle radici e di quanti microbi ci sono in ogni metro cubo di terra, i quali chelano i metalli rendendoli disponibili alla pianta. Il consorzio microbico è anche un grande esaltatore di unicità territoriali in quanto la composizione dello stesso varia molto anche a poca distanza fra un vigneto e l’altro e la loro azione sul Dna non ricombinante dei vegetali ha un effetto di potenziamento della variabilità dei vini in base al territorio.

4) L’alchimia del terroir, quindi, non è data dal solo dato oggettivo della composizione chimico fisica del terreno ma dalla vitalità, dalla qualità del suo consorzio microbico.
Vini prodotti su marne blu (uno dei suoli migliori per la vite) con l’ausilio di diserbanti, antiparassitari, concimazioni chimiche, compattamento del suolo, lavorazioni del suolo  saranno sicuramente peggiori di altri prodotti su “banali” argille rosse inerbite, in cui si limiti la quantità di rame usato, in cui la massa per ettaro di consorzio microbico sia alta e di qualità.

5) Per cui se si fa della viticoltura convenzionale non smenatecela con il suolo, ormai è un substrato inerte e senza qualità.



La biodinamica parla della centralità dell’humus anche se parlando di humus antropico compie, a mio avviso un errore, in quanto ogni azione agricola umana (che non sia la semina del sovescio) tende ad impoverire l’humus del terreno che ha la sua massima ricchezza e variabilità genetica nei prati perpetui montani e nelle foreste.
Dovremmo trovare per la nostra agricoltura dei modelli che siano i più vicini possibile all’effetto foresta, ossia modelli in cui l’uomo e la sua azione siano molto marginali rispetto alla capacità autorigenerante della natura.
Quindi se non ci dite tutto ciò e altro ancora, oppure se siete dei gran consumatori di diserbanti per favore non parlateci di terreno e della sua composizione, per favore.

Luigi

*va molto di moda nel web fare post in forma di elenchi numerati, ho voluto farlo anch’io, però vi avverto che ho numerato a caso.


giovedì 17 aprile 2014

Il caffè non va bevuto di fretta

di Vittorio Rusinà


In Italia il caffè spesso si consuma al bar, al banco e con una gran fretta.
Ho imparato tanti anni fa in Germania a Baden-Baden, in Francia a Parigi e in Olanda a Amsterdam, tanto per fare degli esempi, che la fretta e lo stare in piedi sono i più grandi nemici del caffè, là è quasi obbligatorio accomodarsi ad un tavolo. Aggiungerei che la fretta è anche il più grande nemico dei baristi, fa sì che non eseguano ad arte il loro mestiere (macinare dose per dose, togliere i residui dai filtri, eseguire il purge). La fretta fa anche sì che non prestiamo molta attenzione alla qualità della materia prima usata per una bevanda che è sicuramente la numero uno dei nostri consumi fuori casa.
Proviamo dunque a sederci anche per pochi minuti a sorseggiare i nostri caffè, impariamo a degustarli, a dar loro la giusta attenzione. Il caffè, quello di qualità, è un piacere, è un prodotto vivo, è un prodotto agricolo, merita di più.
#cafferevolution

foto: Ceramica by Enrica Campi


mercoledì 16 aprile 2014

Don Pedro Ximenez Gran Reserva 1985 - Bodegas Toro Albala

di Mauro Cecchi



Il mio rapporto con i vini dolci è sempre stato problematico.
Tranne rare eccezioni difficilmente sono riuscito ad apprezzarli, talvolta riprovo ma solitamente la scintilla non scatta.
Poi un giorno il fratellino ti regala la bottiglia di cui sopra che lavorando ai fianchi inizia a minare le tue (poche) certezze.
In realtà è uno sherry quindi non propriamente un vino dolce, piuttosto un vino liquorosossidativo.
Il colore ricorda il nocino tanto quanto il naso rimanda al mallo di noci, le prugne secche, i datteri e sul finale fanno capolino sbuffi caffettosi .
Bocca vellutata e pastosa, ben sorretta da una sensazione alcolica presente ma non eccessiva.
Provate a dargli un po' di fresco e vi sorprenderà per la beva scorrevole.

Credo sia tra i pochi vini che possa reggere un abbinamento col cioccolato,
anche se forse il meglio di sè lo da in beata solitudine.

Ci siamo guardati, ci siamo studiati.
Probabilmente ci rivedremo.







martedì 15 aprile 2014

#vinivecchi Barolo Fontanafredda 1957


Ho scoperto un piccolo giacimento di bottiglie del 1957 e 1959 in una cantina quasi perfetta in una casa che aveva visto il me settenne giocare con i miei compagni di scuola come se non ci fosse un domani (ed in effetti il domani è stato molto meno appagante della gioventù e delle previsioni che in gioventù ci eravamo fatti).
Nelle segrete della casa dalle mille stanze e dei mille misteri, c’erano già allora (circa quaranta anni fa) le bottiglie che oggi ho imparato ad apprezzare. Un grumo di casualità e causalità che mi fa vedere il concetto di fato con occhi diversi.

Il proprietario delle bottiglie era perplesso sulla qualità del contenuto, io con l’arroganza di chi millanta una conoscenza che non ha, sostenevo il contrario.
Appuntamento al bar alle 18,00 per l’assaggio.
Il bar non è un bar qualunque ma è quello  dove è nato questo blog e le persone coinvolte nella degustazione, tranne Dario Voltolini scomparso nei meandri delle sue narrazioni e ormai sordo alle nostre, sono le stesse di cinque anni fa.

Tutti presenti alle 18,00, compaiono delle focacce e altri amuse bouche, io passo dall’altro lato del bancone e comincio ad aprire la bottiglia di Barolo, il tappo è corto (come usavano un tempo) ma ha tenuto benissimo.
Sento subito un leggero sentore di brodo e di madeira (il termine brodo ha sollevato un coro di sfottò dal pubblico) ma solo per il tempo necessario che l’ossigeno facesse il suo corso risvegliando il cinquantasettenne dal suo sonno anaerobico.
Il colore è incredibilmente concentrato senza derive mattonate e pochissime precipitazioni sul fondo bottiglia!
Dopo di chè il naso è delicatamente terroso e di cuoio, di erbe secche, leggera arancia sanguinella, forse caffè in polvere.
Non è esplosivo come il Massolino ma considerando gli anni che ha è in forma eccellente e, incredibilmente, piace a tutti (nessuno dei convenuti è enostrippato come il sottoscritto e devo dire che è stato un bene), lo bevono con piacere e ad ogni sorso sale il volume delle conversazioni.
In bocca è un filino opaco e polveroso, con una bella freschezza ma un po’ di alcol in eccesso, leggermente bruciante.
Mantiene una mineralità salata interessante e il sorso è semplice e disteso.
Profumi e sapori tengono nel tempo della degustazione forse un po’ fissi ma con grande coerenza.
Bisognerebbe aprirne un'altra perché nel bar aleggia una atmosfera magica e vorrei che continuasse ancora e ancora.
Kempè

Ringrazio Gianandrea Grivetto (proprietario della bottiglia e mio compagno delle elementari), Mario Sandri (secondo noi lavoro al Sismi ma lui nega!), Enzo Caltagirone (proprietario del Bar Arcadia).

Luigi