Rakib, foto courtesy Scannabue, Torino |
La tradizione non può che
essere un concetto che, a dispetto del credo comune, aborre ogni forma di
“congelamento” di fissità anzi ha in sé il seme del cambiamento continuo,
questo espediente di introitazione del diverso rende accettabili i cambiamenti,
i quali entrano senza traumi nel modus vivendi di una comunità.
L’integrazione e l’aggiunta
ad un corpus di comportamenti, rende sostenibili, domestiche, comprensibili le innovazioni (siano esse tecniche,
sociali, culturali).
Si cerca di inserire la novità nella continuità della
routine, della vita.
Nessuno può definirsi
autoctono al massimo è l’ultimo nella sequenza temporale ad essere in un
certo luogo.
Questi pensieri mi sono
tornati in mente guardando dentro le cucine dei ristoranti che frequento sia
per piacere sia per lavoro.
Ormai la forza lavoro è
multietnica anche nei locali in cui si fa cucina della “tradizione” (occhio che
anche i prodotti alimentari che usiamo sono per lo più extraterritoriali e poco
autoctoni a cominciare dalle patate, dal mais per finire alle faraone, i
fagioli, le melenzane, i pomodori); sous chef del Bangladesh, Romeni, Albanesi, nord africani,
sud americani, Giapponesi che hanno fatto un viaggio, tutto interno alle
cucine, dal lavello dei piatti sporchi sino ai fornelli e alla ideazione di
nuovi piatti.
In cucina esiste ancora una
struttura a scalini dal basso verso l’alto e una organizzazione ad atelier e la
conoscenza la si ottiene e la si consolida attraverso l’esperienza, l’osservazione,
la copia, la prova e l’errore, un processo continuo di ricerca e apprendimento.
Ognuno porta qualcosa,
qualche tecnica, qualche sapore.
Daniel, foto courtesy Pomodoro & Basilico, San Mauro Torinese |
La cucina non è mai ferma.
Sperimenta e sperimenta anche
il melting pot in cui la credibilità, l’autorevolezza è data non dall’essere
autoctoni ma dall’essere “bravi”, creativi, disciplinati, veloci ad apprendere.
Il colore della pelle, i
paesi natali importano poco o nulla.
Dobbiamo ragionare ogni
giorno su questi concetti quando applichiamo i nostri modelli reazionari ed
immobilisti di pensiero nei confronti degli “altri”.
E’ sicuramente una vita
grama quella della cucina ma mi pare si eserciti una sorta di laboratorio
dell’integrazione costruito sul lavoro, sulla condivisione, sulla fatica e
sulle soddisfazioni umane e professionali.
Poche parole roboanti, poca
retorica e molta umiltà.
Cosa penserà la gente quando
uno chef di cucina straniero con brigata multietnica farà la migliore cucina di
tradizione piemontese, lombarda, veneta, campana, siciliana, marchigiana…?
Kempè
Luigi
Anni fa a Roma assaggiai piatti di tradizione italiana, romana, da L'Arcangelo a Roma perfettamente eseguiti da cuochi indiani, credo di origine bengalese.
RispondiEliminaGrande Luigi. Va da sé che il ragionamento si applica anche al vino.
RispondiEliminaMélange di persone mélange di cose e culture realtà degli imperi + grandi e con maggior evidenza con l'impero romano
RispondiEliminaIl cibo, il convivio, sono veicoli di cultura e integrazione.
RispondiEliminaIn Sicilia le brigate multietniche sono già affermate realtà e valore aggiunto ;)