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mercoledì 31 luglio 2013

Sono ossessivo compulsivo, dove vedo scritto barbera mi ci tuffo. Lo Stravagante di Reginin


Lo Stravagante unisce due mie compulsioni la barbera e le bollicine.
Bello freddo questo metodo classico di barbera al 100% traghetta qualsiasi cibo estivo mi venga in mente.
Vinoso e goloso, di un colore intenso, elegante il giusto, rinfresca e sgrassa, per chi riuscirà a trovarlo, il salame cotto del monferrato.
Ventiquattro mesi sui lieviti, uve provenienti da un vigneto esposto a nord est.
Paolo Laiolo mi ha detto: “Contratto l’ha sempre fatto (ora non più) e a me piaceva, quindi…”
Paolo come il suo Stravagante è la cotè frizzante di Vinchio che da cru di riferimento dell’astigiano sembra ormai un sonnacchioso paese dimenticato dai più.
Kempè

Luigi


martedì 30 luglio 2013

Perlina Mon Amour di Rossana


Le melanzane possono assumere forme e colori diversi:
le più diffuse sono quelle di colore viola scuro (nere) che possono essere di forma allungata (più amara e piccante) o sferica, più indicate per la frittura;
viola chiaro più delicate e ricche di acqua, adatte ad essere cucinate alla griglia.


La varietà Perlina, coltivata nel ragusano, ha delle dimensioni mignon: pesa circa 30 g ed è lunga poco più di 10 cm. Ha aromi intensi senza nessun sentore amaro, buccia sottilissima e commestibile, semi raramente presenti e microscopici, polpa delicata e dolce, contiene poca acqua, tutto ciò comporta una resa superiore rispetto a tutte le altre varietà, l'unica parte da scartare è il picciolo!
Viene celebrata dallo Chef  Pino Cuttaia, che l'ha resa protagonista di uno dei suoi piatti emblematici:
il Cannolo di melanzana Perlina (in foto).
Creazione che supera lo stereotipo della pasta alla Norma: un cremoso ed intenso ripieno di melanzana e ricotta, avvolto da un nido di sottilissima pasta croccante, sublimato da profumatissima e inarrivabile salsa fresca di pomodoro Datterino, scaglie di Ragusano DOP e aromatico basilico.
Confesso che si tratta del mio piatto preferito in assoluto! ;P

 
In occasione dell'evento "Notte Rosé 2013" tenutosi a Licata (AG), ho avuto modo di conoscere il produttore di questi gioielli di Sicilia, Giovan Battista Campoccia, titolare dell'azienda ortovivaistica
 La Perla del Sud.
Ho potuto confrontarmi con lui e apprezzare la passione che lo ha portato ad ottenere eccellenze uniche nel panorama nazionale, frutto di decenni di ricerca e lungimiranza.  
Prodotti speciali e preziosi i suoi, coltivati secondo tecniche di difesa integrata a pochi km dal mare, nel territorio di Vittoria e Santa Croce Camerina, dove il clima mite anche invernale e l'intensissimo irraggiamento solare permettono costanti cicli produttivi.
In azienda vengono utilizzati i Bombi come impollinatori.

La Perlina di Comiso è frutto di una selezione di incroci fatti a partire dalla melanzana tonda viola siciliana, innestati su un porta innesto naturalmente resistente ai parassiti, la melanzana selvatica Solanum Torvum.
Un lavoro specializzato e di precisione quello dell'innesto, ma permette di preservare dalla chimica il frutto.
Altre "perle" sono i pomodori neri di diverse varietà, tra cui un intensissimo Camone, polposi pomodori Vesuviano e Datterino di elevatissimi gradi Brix, una dolcezza superiore al melone, da cui nasce la passata unica di Pino Cuttaia.


La Melanzana o Melenzana è il frutto della  Solanum melongena L. , pianta annuale a ciclo estivo, appartenente alla famiglia delle Solanaceae, il suo uso in cucina tardò a diffondersi, il nome deriva da "mela insana", nel Medioevo le si attibuivano infatti proprietà velenose, si pensava addirittura che portasse alla pazzia.
I principi attivi contenuti sono :
composti caffeici cinarosimili ( stimolano la produzione di bile), antocianine, carotene, vitamine B, C, ferro, zinco e manganese.
Contengono poche calorie ed hanno un elevato potere saziante.

Sono molto apprezzate al sud , la celeberrima Parmigiana è in realtà un piatto partenopeo.
Tagliate a fette, lasciate o no sotto sale per perdere il liquido di vegetazione amaro, possono essere fritte, anche infarinate, preparate come delle cotolette, o arricchire timballi, couscous, pasta al pomodoro che diventa alla Norma insieme alla ricotta salata, o usate per creare involtini dai mille ripieni.
Tagliate a cubetti e fritte sono protagoniste della Caponata.
Cotte intere sulla brace, alla griglia, o al forno sono un ottimo contorno estivo, condite con aceto, basilico, origano, aglio e olio evo. Cotte in questo modo, schiacciate e lasciate scolare, si prepara un'ottimo caviale vegetale, da servire con crostini che si possono aromatizzare con paprika, sesamo o cumino.
Acquisto
Spesso le più grandi sono ricche di semi, scegliere le più sode, senza ammaccature o buchi sulla buccia, che deve apparire lucida e tesa.
Vanno conservate in frigorifero, per non più di 3-4 giorni, le melanzane non più fresche raggrinziscono e accentuano il sapore amaro.
Per una buona frittura:
utilizzare abbondante olio sui 160°C, evo o di arachide.
Friggere poche melanzane per volta, in questo modo si evita che la temperatura si abbassi troppo, cosa che farebbe risultare il fritto poco asciutto e croccante.

Rossana

lunedì 29 luglio 2013

Ma sei (s)fuso?

Tutto avrei immaginato (dall’innesto subcorticale di memorie cyber alla edizione numero j-mille di Amici girata su Tannojser con attori sintetici) tranne che io sia qui in questo meriggio di luglio di quasi estate a parlare di vino sfuso.
Contrariamente ai giovin redattori del blog in cui vi siete imbattuti (naturalmente per caso), a me parlare di vino sfuso va un po’ venire l’orticaria (loro invece ne sono fautori e propugnatori e infaticabili ricercatori).
Io ero giovane (loro neanche nati) negli anni in cui frotte di amici famiglia e conoscenti torinesi venivano da noi in monferrato per comprare le damigiane di barbera e grignolino.
Io ero giovine, appunto, e ne capivo poco ma quei vini erano al limite della decenza, chi si lamenta oggi dell’acidità del barbera, lo vorrei catapultare in quegli anni a provare cosa significa il concetto di acidità.
Chi si lamenta oggi delle “puzzette”, dal suo loft meneghino lo vorrei, catapultare nelle buie e umide cantine degli anni settanta.
Il colore del grignolino non era nemmeno da rosè, spesso era figlio di vendemmie improbabili in vigneti a nord, cotonati di botritis che sembravano meringhe.
Vinificazioni in legni che sarebbe stato meglio cambiare prima della Grande Guerra, contatto con i raspi verdi e dai tannini urticanti, torchiate potenti e raspanti.
Insomma ho una memoria orribile della damigiana.

Però!
Andrea Della Casa e Mauro Cecchi mi hanno regalato due bottiglie (leggi: mi hanno inoculato il retrovirus del dubbio) di malvasia di Langhirano (PR) una di Camillo Donati e una di Marco Rizzardi di Crocizia [avrete capito che io parlo di Marco un giorno si e uno no, solo per ottenerne favori economici (ironia!)] entrambe ottenute da imbottigliamento casalingo di vini sfusi.
Tante volte abbiamo detto su questo a altri blog (con un eccesso di retorica, pressapochismo che un po’ mi stomacava) che il vino per essere buono deve finire in fretta.
Ebbene la prima bottiglia, in due, è finita prima di iniziare a mangiare!
La seconda, forte della prima esperienza, l’ho contingentata facendomi forti pressioni psicologiche per convincermi a non berne alla canna.
Entrambe fenomenali (valgono molto di più di qualsiasi vino “base”) con una leggera preferenza per quella di Marco (solo per salire nella sua scala degli sconti).

Però (questo però, parzialmente confuta il precedente però).
Forse l’attuale attenuazione dei consumi di vino relegano lo sfuso di “qualità” all’ennesimo gioco da enofighetti che al volante di Suv nipponici o tedeschi vanno sino da Valentini, Donati, Crocizia a comprare il vino sfuso da stagnolare alle degustazioni in doppio cieco.
Oppure per far mugolare (avete presente quel mugolio che diventa quasi un miagolio o un belato): “ma non mi dire caro..ma cosa mi dici..ma dai!…sfuso questo!… non ci credo…” gli amichetti (eno)fighetti durante una cena a base di ostriche di Belon e Wagyu (ottenuto massaggiando i lombi dell’animale con lo stesso  vino sfuso di qualità servito alla cena).
A la santè


Luigi 

venerdì 26 luglio 2013

Alla domanda: cos'è un vino del territorio? Da oggi risponderò: beviti il "Vignammare" di Nino Barraco... di Riccardo Avenia


Era destino: sarei passato da Nino Barraco non appena arrivato a Marsala. Lo capii poche sere prima di partire per la Sicilia, al ristorante Marconi. Se siete in zona, è tappa obbligatoria: la cucina di Aurora è una ricercatissima e coinvolgente esperienza, mentre il fratello Massimo, dirige con grande maestria sala e cantina. Quest'ultima è ricchissima di perle "naturali", tra le quali lo Zibibbo 2005 di Nino. Che poi è stata la mia scelta.

Un vino che difficilmente dimenticherò, dal naso sopraffino, ampio nella sua idrocarburica aromaticità, con quella nota ossidativa che adoro e che, davvero, può ricordare il vino Marsala. Un vino nel quale i profumi hanno i colori del giallo, del verde e del rame che virano all'evoluzione. Quel liquido oro denso, dalla beva ricca, che vive e sgomita di sapidità, allo stesso tempo glicerica, avvolgente ed ancora ossidativa, che ti conquista e non ti lascia più. Una bottiglia da cui difficilmente ci si separa.

Così, pochi giorni dopo essere arrivati in Sicilia, incontriamo Nino Barraco nel centro di Marsala, davanti alla storica Porta Garibaldi. Un saluto e ci dice: «Salite ragazzi, vi porto a fare un giro, devo controllare la "Vignammare" dopo la pioggia di alcuni giorni fa».

Vignammare


Infatti, usciti da Marsala con direzione Petrosino, dopo aver superato una distesa di vigne, eccoci arrivati. Non ci volevo credere: è davvero ad una ventina di passi dal mare. Stupendo, davanti a me il verde vivo delle piante, un piccolo lembo di terra e poi l'azzurro, sempre più profondo, dell'acqua. C'è una luce incredibile da quelle parti, il sole è alto e picchia forte. Il vento soffia caldo e costante. Il respirare ti riempie i polmoni di iodio, di sale, di alghe e della rada vegetazione marittima. Per il resto, solo il rumore delle onde ed il muoversi delle foglie. E che foglie, che vita in questo vigneto di Grillo. Camminare al suo interno può divenire arduo. Bisogna spostare dei rami, scavalcarli, schivarli, sembra quasi che la natura si voglia riappropriare dei propri spazi. È chiaro: le piante, se lasciate in autonomia, cercano di proteggere sé stesse ed i piccoli grappoli dalla luce abbacinante e dall'eccessivo calore. È meraviglioso.

Nino Barraco


Lo seguiamo nel vigneto, Nino controlla le foglie, le gira, ne strappa una, avanza sicuro, sistema un ramo, tocca un giovane grappolo, ed intanto ci spiega che in primavera il vento spira talmente forte da bruciare le foglie delle viti più esposte, tanto da dover mettere una barriera a protezione (che comunque, ci spiega, non basta). Sorride: «Non hanno provocato nessun danno le piogge dei giorni passati, sono contento, non dovrò ripassare». Strappa qualcosa dal terreno e dice: «Chi vuole sentire il sapore della rucola selvatica?» Mai assaggiata così piccante e saporita.

Vignammare - con il mare alle spalle
Picoli grappoli di Grillo.
Ci racconta poi che in quella zona quasi tutti ricercano la quantità, che in molti conferiscono alle cantine e che i vigneti vecchi vengono espiantati perché poco produttivi (e li incentivano pure). Ed io spalanco gli occhi incredulo. Sono pochi i viticoltori che, come lui, vinificano ed imbottigliano il vino. Un territorio (salvo rari casi) dedito e piegato all'industria del Marsala.

Bastano pochi passi e si arriva al mare.
Ci spiega il suo approccio in vigna - sensibile e limitatissimo - e le vinificazioni. Semplici, consapevoli, attente: brevi macerazioni sulle bucce, lieviti indigeni, fermentazioni in acciaio a temperatura controllata, zero filtrazioni (solo per precipitazione naturale), zero solfiti aggiunti ed affinamento in acciaio per otto mesi circa.

Le ore volano e purtroppo gli impegni ci costringono a salutare Nino, che ci lascia comunque una bottiglia di Vignammare«Così ve la assaggiate con più calma», dice.
Grazie di tutto Nino.


Alcuni giorni dopo, stappo la bottiglia, ed eccomi catapultato nuovamente in vigna, in quella vigna. Dentro questo liquido risiede l'essenza del luogo, si respirano e si assaporano le medesime sensazioni. Quindi sì: esiste davvero la territorialità di un vino. Magari non è legata direttamente al vitigno, ma ad un insieme di fattori che, uniti, lo raccontano. Fattori spontanei, intrinsechi, che l'uomo deve solo accompagnare, non gestire o influenzare con i propri interventi.

Il Vignammare 2012 è giallo tenue, mai pulito, di corpo e struttura certamente inferiore al fratello "maggiore". Ha giovani profumi di fiori e di frutta. E poi c'è l'incredibile ricordo marittimo, di quel vento, di quello iodio e di quell'inconfondibile odore che emanavano le alghe, in quel tratto di mare. Un vino che si beve alla grande, anche merito dei soli 11,5°. Il sorso è un tuffo tutto sapido e rinfrescante di acidità, che invoglia perennemente al sorso. Snello, beverino, persistente e marino.
Da vigne di soli cinque anni, ed alla sua prima uscita, il Vignammare, è un vino da seguire, perché farà sicuramente parlare di sé.


giovedì 25 luglio 2013

La vita è un film: si gira a Ca Vittoria una domenica di luglio

courtesy Glocal
La vita è a volte un film, e ti ritrovi una mattina di luglio in auto con Marco Bolasco e Bob Noto diretto a Ca Vittoria a Tigliole d'Asti per la grande festa organizzata da Massimiliano Musso con Giorgio e Gil Grigliatti per la brigata di L'Osteria Francescana il mitico trestelle di Massimo Bottura.
Scivola l'auto veloce verso la campagna mentre i due "mostri sacri" chiacchierano di chef spagnoli, di grandi sistemi gastronomici e riescono ad infilarsi in una strada sterrata circondata da campi di grano ormai pronto ad essere trebbiato e orti di zucche, tanti alberi, tutto molto Slow Food...si ride come ragazzi in gita scolastica mentre si raggiunge l'ambita mèta.
Arriviamo giusto in tempo per vedere sfilare via il bus degli amici di Modena nel frattempo giunti anche loro...un caldo pazzesco ci accompagna fino al giardino di Ca Vittoria dove è allestito a bordo piscina l'aperitivo...mentre scendo le scale vedo un signore che ci accoglie stringendoci la mano, penso sia qualcuno del ristorante, scopro poi dopo che è il critico Enzo Vizzari.
Sono travolto dalla bellezza dei fiori del giardino, ce ne sono alcuni blu alti più di un metro da cui non riesco a distaccarmi, intanto intravedo due grandi vignaioli: Francesco Brezza e Lorenzo Corino, vestiti a festa alla monferrina con la camicia bella e i capelli tirati all'indietro, due gran signori del vino...poi vedo Luca Garberoglio di Carussin e Francesco Maule di La Biancara, due miti per me, sono giovani ma fanno dei vini che io adoro...sono commosso e travolto, c'è anche Fabrizio Iuli che chiacchiera con Walter Massa e Christian Bucci di nero vestito, intravedo Pietro Vergano del Consorzio in camicia bianca d'ordinanza.
Mi prendo un calice di champagne biodinamico e uno di brut contadino, mentre una donna bellissima che lavora all'Unesco mi parla dell'alto livello della ristorazione nel Sud Est Asiatico e Gil Grigliatti mi abbraccia stretto in una mise di camicia araba che mi perplime "Fa parte del mio periodo nordafricano...Tunisia mon amour!" mi dice mentre vola via a chiacchierare con Gaia Gaja la mitica principessa di Barbaresco.
Al volo sento un Lorenzo Corino un po’ frastornato da tanto bailame che propone a Giacomo Kratter di sciare con lo snowboard sull’humus soffice della collina Barla.
Tutti su in sala per il pranzo...squillano le trombe e finalmente vedo Massimo Bottura che gira a salutare, entra in cucina ad abbracciare i ragazzi e le ragazze del Vittoria che poi lo racconteranno per anni...c'è anche Beppe Palmieri seduto con l'affascinante compagna e un cane nero che più nero non si può, non stappa bottiglie oggi per lui e per tutta la brigata di La Francescana è festa, festa grande.

Come in un gioco di contrappasso il menù partorito da Massimiliano Musso e dai Grigliatti si radica con forza nel territorio e si allontana da ogni velleità di innovazione, non vedevo da anni dei “carpioni” a ristorante, salami crudi e cotti (simbolo nostalgico del Monferrato) poi a tavola abbiamo fatto un percorso culinario che un tempo era la normalità ma che oggi, dopo tanto sperimentare e fondere e meticciare, aveva il sapore della novità esplosiva.
E noi eravamo storditi, aggrappati ai bordi del tavolo come se la sala fosse inclinata in una bolina, impegnata a risalire il vento alla ricerca delle radici o della nostra infanzia.
Anche i vini parlavano di tempi passati e di vecchio Monferrato e noi abbiamo mangiato e bevuto il nostro passato, la nostra memoria, la nostra identità.
A Massimo Bottura, Beppe Palmieri e a tutto lo staff della Francescana, Massimiliano Musso e i Grigliatti hanno offerto la pancia molle e intima del nostro essere monferrini, un segno di grande generosità.


Massimiliano ci ha offerto e Beppe Palmieri ne ha già parlato quà:
Aperitivo con salumi e carpioni e formaggi e panini e grissini, insomma un ben di dio
Abbiamo bevuto Champagne Gosset, Champagne Goustan Nature di Demarne-Frison, Vermouth bianco di Mauro Vergano, il Brut contadino di Ciro Picariello
Poi a tavola
Carne cruda battuta all’orizzontale con crema di parmigiano e crostini di pane
Abbiamo bevuto uno strepitoso Pico 2010 di Angiolino Maule
Peperone ripieno rivisitato in chiave moderna
Abbiamo bevuto un “Derthona Farewell” 2011 di Walter Massa
Risotto alla coda di bue
Abbiamo bevuto una Freisa 2012, di Francesco Brezza alias Tenuta Migliavacca, da commozione
Agnolotto gobbo al burro Isigny saint Mère (uno dei più buoni che abbia mangiato)
Abbiamo bevuto una Barbera del Monferrato “Barabba” 2004 di Fabrizio Iuli
Guanciale di vitella con riduzione di salsa alla barbera
Due vini, due barbera di grande spessore in abbinamento :
La Tranquilla 2010 dell’Az. Agr. Carussin
Barla 2007, di Lorenzo Corino
Tortino di pesche e gelato al fior di latte (la rivisitazione della tradizionale pesca ripiena)
Abbiamo bevuto il Moscato Docg di Paolo Saracco

Il ristorante si svuota, resta solo Giorgio Grigliatti seduto al tavolo delle autorità, circondato da bicchieri ormai vuoti, pesche di Volpedo (che Walter Massa da grande uomo di marketing ha rifilato a tutti) e il cartello bianco con le firme di tutti ideato da Massimo Bottura, c'è scritto "Per Giorgio il più grande di tutti!!!"...i ragazzi e le ragazze di cucine stanno asciugando i calici, verso la fine di un servizio iniziato tanti giorni prima.
Si esce sul terrazzo di nuovo fra i fiori con Massimiliano Musso il giovane chef di Ca Vittoria che ha cucinato alla grande insieme alla sua mamma che lo adora..."la sfoglia degli agnolotti" l'ha fatta lui dice...beh! sono gli agnolotti più buoni che abbia mai mangiato.



L'ultima immagine la vorrei dedicare ai giovanissimi cuochi di Ca Vittoria, Chiara e Gianluca, li ho fotografati vicini, lei sorride ma tesa stringe le dita in un pugno, l'altra mano aperta vicino a quella di Gianluca che serra le labbra fra emozione e spavalderia, c'è tutta la bellezza della giovinezza, della cucina che sarà famosa...anche Massimo Bottura tanti anni fa era così, forse lo è ancora un pochino.

Vittorio
Luigi

mercoledì 24 luglio 2013

Arneis docg 2011, di Enrico Cauda a santo Stefano Roero (CN)


L’arneis è il bianco più consumato in Piemonte e largamente sopravvalutato dai consumatori e largamente maneggiato dagli enologi.
Che ne fanno un caramellina political correct buona per tutti i palati.
Qualcuno che bazzica cantine, però mi aveva detto che prima di essere inoculato, pompato, centrifugato, sbiancato, filtrato, chiarificato, l’Arneis non è per niente male.
Ma non mi era capitato di assaggiarne nessuno che avesse il “Ki” fino a che ho provato questo di Cascina Fornace.
Ed è la prima vinificazione (alla prima impari, alla seconda sai, alla terza insegni!).
A me è piaciuto molto (sarei tentato di dire “per essere un arneis” ma non risponde a verità).
Profumi intriganti con sentori in fasce (neanche troppo in fasce al secondo assaggio) di idrocarburi e mineralità.
Bella acidità e sapidità e ricchezza con finali di frutta appena matura.
Si allarga in bocca con grande succosità e vivacità.
Fermentazione spontanea in acciaio senza controllo della temperatura (hanno usato l’acqua del pozzo e una serpentina artigianale per limitare un po’ l’innalzamento delle temperature).
Hanno filtrato prima dell’imbottigliamento ma mi hanno giurato che il 2012 andrà in bottiglia senza subirne alcuna.
Kempè

Luigi

Ps
Forse ho bevuto il primo vero arneis.
Questo sono sicuro che a Fabio piacerebbe molto



martedì 23 luglio 2013

Borough market di Rossana










 Foodaholic o meno, se transitate per Londra dovete necessariamente perdervi nel tripudio universale di quello che è riduttivo definire mercato, mi diverte immaginare come avrebbe potuto dipingelo Guttuso al posto della Vuccirìa...
Ho scoperto la passione British per le uova: oltre quelle di gallina, quaglia, oca, anche nei supermarket troverete uova di struzzo, pernice, fagiano, anatra e credo mi sfugga qualche altro volatile.
Poco m'impressionano i burger di canguro, le bistecche di zebra o i bocconcini di alligatore, rimarrei ore a contemplare la magnifica selezione di funghi: shiitake, finferli, pioppini, ovuli reali, porcini enormi e tantissime altre specie curiose.
Avrei tanto voluto acquistare tutta l'infinita selezione di paste di curry fresco, le enormi kidney pie, e stabilirmi per sempre alla Oyster&Porter House...




Continuando il gastrotour troverete tutte le sfumature di pomodoro che vanno dal giallo al nero, idem per carote, cavolfiori, zucchine, patate e fagiolini. Incontri i produttori in persona, che in modo friendly ti raccontano delle regioni da cui vengono, del sale che affumicano per impreziosire i loro salumi, della lotta col vento e il mare per portare sui banchi scampi grandi quanto aragoste.

Il paradiso dei formaggi, del pane biologico di quinoa, di mille cereali e di mille semi, di birra, di sidro, di patate.
Addentrandosi inizierete a perdervi nei profumi di miele integrale venduto direttamente dal favo, delle dolcissime tentazioni turche, piramidi di brownie, cookies e cupcakes glitterati. I drinks spaziano dalle clorofilliche spremute, smoothie di mango indiano, darjeeling rari, latte di capra fermentato prebiotico, sidro, birra ai licheni artici fino ai vini neozelandesi.






Inizierete a dare i numeri con i profumi delle proposte etniche che lentamente sobbollono in tegami di enorme diametro: paella, spiedi libanesi, intingoli creoli, tikka masala, o se proprio volete mantenere il contegno British potrete optare per un enorme filetto di fish&chips, da consumare seduti ai tavolini della Southwark Cathedral.
Se avete ancora voglia di inebrianti esperienze dovrete allontanarvi di poco e concludere con una irripetibile degustazione di rari formaggi di nicchia affinati per esprimersi al meglio.













Il cibo è prezioso veicolo di cultura, ti apre alle tradizioni di popoli lontani, ti spinge a conoscerne le tradizioni, la storia, il sentire, non ti lascia solo appagato ma arricchisce il tuo bagaglio anche di sapere.
Amo Londra per il suo respiro, perché la ritrovo sempre diversa, ti adotta e ti fa sentire parte del mondo, perché il mondo intero è a Londra.

Rossana


























lunedì 22 luglio 2013

Pignoletto mon amour, Zola Predosa esterno giorno (finalmente col sole)


Bellissime etichette dice Niccolò, quelle di Alberto Tedeschi e questo aiuta aggiungo io, il font un po’ in stile ventennio mi piace parecchio.
Mirco Mariotti loda la scelta del tappo a corona.
Ma i vini come sono?
Siamo partiti Vittorio ed io un sabato dalla periferia dell’Impero, il primo giorno caldo dopo otto mesi di gelo, con un treno a “levitazione” e in due ore eravamo a Bologna dove ci aspettava Riccardo, nessuna colazione, nessuna distrazione  ed eccoci alle porte della cantina.
Alberto che è noto per un certo andamento lento e per il suo understatement era in ritardo, quindi giù dalla collina a prendere un caffè e un croissant.
Ritorniamo e siamo ancora in anticipo.
Aspettiamo, nel frattempo sono arrivati Luigi e Fabio.
Arriva Alberto entriamo nel cortile e siamo accolti da un polverone generato da una taglia piastrelle, svariati fumogeni ci accompagneranno nel corso della visita.
Allestiamo sotto l’ombra di alcune vele un tavolo per gli assaggi, arrivano i bicchieri (ce ne fosse uno uguale all’altro!).






























Si stappa Pignoletto 2010 frizzante sur lie e Alberto parla della particolarità di questo vino che in questi luoghi 
era tradizionalmente in fondo alla catena produttiva delle aziende policolturali di un tempo, per cui si dedicavano alle altre attività e verso tardo autunno, solo allora, vendemmiavano.
L’uva era surmatura, ricca di zuccheri e bassa di acidità.
E il suo frizzante sur lie è così, quasi un ossimoro per chi normalmente si aspetta acidità e drittezza dai vini rifermentati, ha una sorta di “grassa effervescenza”, matura, molto accattivante e vagamente opulenta seppure salino e pompelmato.
Profumi di caramella d’orzo, di camomilla, di composte di frutta, di pera Gil Grigliatti dixit.
E’ un rifermentato che ha una genesi piuttosto lunga ed esce dopo un anno e mezzo dalla vendemmia, per la presa di spuma usa il mosto della vendemmia successiva e dopo qualche mese è pronto, tutte le vinificazioni sono in inox.
Questa lunghezza produttiva è un costo economico ma credo che sia la forza di questo vino che è un “frizzante evoluto” con ricordi di savagnin.

Si apre il Pignoletto 2010 Spungola Bellaria (dal toponimo delle due vigne) e devo dire che rispetto ad altri assaggi mi ha colpito molto (forse la temperatura alta di servizio) per la ridondanza con cenni di ossidazione, anche se questo millesimo è stato gestito in riduzione (inizialmente Alberto li vinificava sous voile o comunque a botte scolma) la vena di ossidazione degli zuccheri sembra il marchio di fabbrica del pignoletto surmaturo, a me non dispiace per nulla e sognavo (ormai stanco ed affamato) di berlo mangiando un Parmigiano di 36 mesi o meglio un Comtè o un Gruyere d’etè anch’essi di 36 mesi.
Opulenza ammandorlata e freschezza salina più che acida, un vino importante, da abbinare con oculatezza.
Del Pignoletto Spungola Bellaria avevo una memoria di vino meno decadente (la decadenza per me è sempre una cosa positiva) più asciutto e fresco, comunque anche così mi è piaciuto parecchio.
Vinificazione in legno in cui sosta per 12 mesi poi 6 mesi di inox e infine bottiglia.





Si apre il Rosso 2011 una barbera con taglio di cabernet sauvignon (come si usa fare qua) e qui il giudizio rimane sospeso, il vino appena imbottigliato mi/ci ha lasciati perplessi “rimandato a settembre”.


















Kempè

Luigi

sabato 20 luglio 2013

Si fa presto a dire pesto di Andrea Della Casa



Siamo sempre di fretta. Troppo.
Ormai siamo solo capaci di accendere un pc, touchare un numero di telefono e buttare in padella qualche busta di surgelati già pronti. Anzi i surgelati sono il passato, siamo già all'apri e impiatta (sic).
Ormai cucinare pare una perdita di tempo.
L'altro giorno, come ogni anno in questo periodo, ero intento a "spulciare" le foglie di basilico pronte per essere immolate nel pesto genovese. La rapidità di preparazione e la discreta riuscita della salsa hanno suscitato in me un banale interrogativo: come mai si compra il pesto al market quando è possibile farlo in casa propria in breve tempo e senza fatica.
Questi pensieri mi hanno "tormentato" per qualche giorno, poi durante la spesa in un centro commerciale la curiosità mi ha portato a controllare cosa in effetti è contenuto dentro ai diversi vasetti di pesto che si possono acquistare in GDO.
Quali sono gli ingredienti?
Già perchè troppo spesso soprassediamo a questo controllo, ci fermiamo solo alla marca o al prezzo. E tralasciamo la cosa più importante: quello che veramente mangiamo.
Il risultato lo trovate nell'immagine qui sotto.



Dal sito del Consorzio del Pesto Genovese apprendo che nella ricetta ufficiale gli ingredienti sono: basilico, olio evo, Parmigiano o Grana Padano, pinoli, aglio, noci (facoltative), pecorino.
Pochi ingredienti ma di qualità.
Salta all'occhio come in TUTTE le confezioni reperite sugli scaffali sia presente Grana Padano anziché Parmigiano Reggiano (qualcuna addirittura indica solo un generico formaggio grattugiato).
Spesso gli anacardi affiancano o sostituiscono i pinoli.
L'economicità si impone sulla qualità.
In alcune confezioni mancano alcuni ingredienti base (pinoli, olio evo) e altri ne sono aggiunti: margarina (che ricordo non essere meglio del burro, anzi se idrogenata i grassi saturi derivanti dall'idrogenazione sono addirittura peggio), grasso di palma, patate disidratate (??), siero di latte in polvere etc etc....
Per fortuna in tutte c'è il basilico (anche se il disciplinare indicherebbe in quantità non inferiori al 25%).
Senza dimenticare additivi e conservanti chimici presenti forzatamente in ciascuno (e checché se ne dica l'acido ascorbico NON è la vitamina C, ma una frazione, un distillato di essa).

E dal lato economico conviene farsi il pesto genovese in casa?
Proviamo a vedere.
Dunque il prezzo più basso al market è di circa 1,40€ per 100g di pesto (ma se ne trovano anche oltre i 3-4 euro).
Io per ottenere 100g di pesto ho utilizzato:
- 45 g di basilico seminato (foto sopra) (quindi il 45%)  => € 0 (ininfluente, con una bustina di semi fai kg di pesto)
- circa 40 ml di olio evo Bio siciliano (ok lo so sono blasfemo dovevo usare quello ligure, ma questo ho in casa. €8/l)   =>   € 0,32
- circa 5g di pinoli (3,58x40g)  =>   € 0,45
- circa 60g di Parmigiano Reggiano Bio 36 mesi (€ 21/kg)  =>  € 1,26
- aglio Bio 1 spicchio  => € 0,01
Manca il pecorino risultato assente nel frigo.
Totale € 2,04.

Il prezzo è decisamente più alto (+46%) ma anche gli ingredienti sono decisamente diversi.

P.S. tendo a sottolineare che i vasetti di pesto  "sotto inchiesta" derivano da grandi industrie alimentari. Esistono ottimi produttori che utilizzano materie prime genuine e di qualità, il cui pesto è senz'altro meritevole di acquisto.

P.S. II: anche io sono "sotto inchiesta" e, ahimè, risulterò colpevole di non aver utilizzato pestello e mortaio, ma è un accessorio che (per ora) mi manca.

venerdì 19 luglio 2013

SETE di Eugenio Bucci


C'è un uomo seduto davanti a me e più che un uomo sembra un manzo abbattuto e più precisamente un boeuf tué dato che mi trovo nel sud della Francia e, ad essere pignoli, sulla riva sassosa della Promenade Des Anglais di Nizza. L'orario deve essere qualcosa tra le 14 e le 15 di inizio luglio il che implica, nonostante il clima mite e un tasso d'umidità intorno al 40%, un leggero principio d'insolazione e una capacità di lettura della realtà prossima allo zero.
Mi spalmo uno strato di crema solare protezione 100 della linea Nivea Bronze che inquietantemente ha la consistenza del grasso di foca e d'istinto faccio per alzarmi e ricoprire di Bronze il tizio/manzo che mi pare al giusto punto di cottura e mentalmente penso che vino potrei abbinarci, quando il tizio si tira su remando nel ciottolato e sceglie una postura totemica. La rifrazione atmosferica produce sulla visuale un effetto gas lacrimogeno e dilata i confini del tizio che dallo stato di manzo passa a quello di toro. Capisco che è francese, e più precisamente franco-gallo, dai baffi a manubrio che sono una roba che solo un manzo/toro/gallo può portare, a parte un mio amico di Faenza il quale, in effetti, è manzo e pure toro e porta le magliette da marinaio e ascolta la Piaf e Trenet. Il tizio apre un tascapane che suppongo essere il suo e butta dentro una mano del diametro del mio petto e tira fuori una baguette intera. La baguette è tagliata a metà e farcita da quello che sembra essere il bottino del furto ad una gastronomia e con alimenti che spaziano per tutto l'alfabeto gastronomico. Il tizio, che, per completare l'animalario, suda come un porco, trasmette un vago senso di languore e inizia a mordere lo sfilatino/missile. A metà merenda, un meccanismo di autoconservazione fa si che il tizio ributti una zampa nel tascapane e tiri fuori una bottiglia di plastica con dentro un liquido viola-tannino che riconosco, nonostante il sole sia una croce inchiodata sul lobo frontale, come vino rosso. Il leggero Mistral spegne il suo soffio rinfrescante (?) per un attimo e il tizio si attacca alla boccia riducendone il contenuto a circa il 50%. Poi fa "Aaahhh..." e si pulisce i mustacchi.
Così ho capito finalmente cosa sono i vin de soif.
Poi sono svenuto.
Poi la sera mi sono ripreso.
E ho iniziato a bere. Perché avevo soif. Sete. 
Sono entrato nei bar à vin, bistrot, enoteche, restaurant, brasserie, paninoteche (no, quelle no), e dicevo "Soif, soif, soif..." Una parola jolie, delicata, semplice. Come un soffio. Volevo quei vini che sono come un soffio, che rispondono ad una precisa domanda in precisi momenti della giornata. Fame? Mangiare. Sete? Bere. I vin de soif che scorrono, scivolano, rinfrescano, che male che vada non urtano e non infastidiscono e si misurano in nanosecondi e non in minuti, che bene che vada sono annichilenti e stordenti e sono un ascensore ultraveloce vita terrena/beatitudine e ridicolizzano il formato da 0,75 litri.
Ecco il mio 48 Hour Wine Party.
La Part Des Anges è un'enoteca carina e, chiaramente, definirla carina è una minchiata qualsiasi detta per tenere un profilo basso rispetto a quella che è una specie di miniera d'oro del vino e, più specificatamente, naturale (termine che in Francia viene usato per quello che è, ossia un termine), un posto che al solo pensiero mi produce una singolare ipersalivazione pavloviana e mi riporta all'ultima sera quando ho salutato Olivier, il mio Willy Wonka personale, e cazzeggiando ubriaco con lui ho premuto due dita sul petto e tentato di contattare una Enterprise della mia fantasia per far teletrasportare tutto a casa.
Olivier, nei due giorni di quasi campeggio nel suo locale, mi ha fatto assaggiare:
Lard, Des Choix 2011. E' il bianco di Les Champs Libres. Grenache Blanc e Grenache Gris. Questa azienda/progetto di René-Jean Dard e Hervé Souhaut ha prodotto un capolavoro di cui scrissi qui. Col bianco si viaggia su rotte più consolidate, si vola più basso. Citrico al naso con qualcosa di dolce in sottofondo che con l'aria vira verso il candito. In bocca manca di grip, acidità e dolcezza glicerica non arrivano a fondersi, qualcosa di minerale arriva nel retrogusto e allunga discretamente la beva. Semplice e un po' furbo, discretamente consistente, discretamente equilibrato, discretamente piacevole: un discreto 80/100 e io ho ancora sete.
Così proseguiamo il nostro Tour De France (nota 1) in una regione che, come dire, gli appassionati stanno montando e montando come una torre di Mont Blanc, una regione, la Loira, sempre più taggata con vino+naturale+figo, una regione con una squadra di produttori giovani belli e baffuti da riempire un album Panini. E di vini buonissimi.
Hervé Villemade è uno di loro (a parte i baffi che, inspiegabilmente, non porta) e come rossi vinifica Pinot Nero e Gamay perlopiù in uvaggio. Ho assaggiato i due Cheverny base, quelli da sete (appunto), partendo col Le Litre 2009 che è una bottiglia buffissima e mi ha fatto dire: "Toh, il Litrozzo francese!", e Olivier ha detto "Si, Le Coste e Antonuzi", e, insomma, Italia Francia una-faccia-una-razza. Le Litre è leggero, un rosso/rosato quasi trasparente, e tutto un cestone di roba verde la naso, peperone, clorofilla, geranio (tanto geranio), tutto molto fresco ed easy, e la bocca ci va a ruota, freschezza e consistenza minima e sorso ampio e disimpegnato. Lo Chevergny 2011 gli assomiglia molto. E' il fratellino che gioca a fare il fratellone, quello più serioso e accigliato. Aggiunge qualcosa in peso e aromaticamente il verde si condisce con una discreta pepatura, il nerbo acido si fa sentire e irrigidisce leggermente la beva. Ma va bene così, questa è una gita fuori-porta su una 2 CV, per i viaggi seri si prega da passare oltre. Rispettivamente e rispettosamente 83/100 e 82/100 perché in fondo la sete mi sta passando.
Ma non mi è mica passata.
Dove eravamo? Loira? Roba da dilettanti, bisogna andare in Jura per capire la nouvelle vague enologica. O meglio, bisogna andare da Jean-François Ganevat. C'è un sito di un tizio che gira in moto per tutti questi ragazzoni e fa un sacco di foto e assaggia e ci racconta: qui è il turno di Ganevat. Mi era già capitato di assaggiare delle batterie dei suoi vini. E, credetemi, il termine batteria rende poco l'idea avendo deciso il nostro Jean-François di imbottigliare quasi ogni singola parcella (quasi filare, direi) dei suoi 8,5 ettari che finiscono così polverizzati in 30/35 cuvée tra Chardonnay, Savagnin, Poulsard, Pinot Nero, Trousseau, etc etc. Una specie di delirio da microvinificazione. Ma mi mancava il Poulsard Cuvée L'Enfant Terrible. La 2011 è durata in tavola all'incirca 23 minuti (nota 2) e intorno al 21° minuto si è creata un'enorme tensione tra me e la mia commensale e si è sfiorata la rissa fortunatamente rientrata decidendo di versare gli ultimi cl. in un bicchiere comune dove si sarebbe attesa circa un'ora per valutarne l'evoluzione. E noi stavamo lì, a fissare quel colore tenue, un torbido quasi-rosato, a ripensare a quell'odore, quella speziatura fine con fruttini rossi croccanti, a quel sapore che è un rollercoaster in bocca, una dinamica di sapori che parte dolce, poi rilascia un filo di tannino, poi una ola di sapori, poi l'acididità perfetta, nitida e non aggressiva, che pulisce e allunga il sorso. Ecco, un giro vicino alla fine della sete, un giro da 93/100.
Ma la sete è strana. Ti sembra di non averne più e poi, all'improvviso, TAC! 
Rieccola.


E l'oasi al termine della sete doveva essere nella fortezza di 2 supereroi. Dard & Ribo. Con le annate nuove fresche fresche di consegna. Come sempre, l'odioso motociclista/blogger ne ha scritto (qui), per cui vi risparmio la pappardella su cosa, dove e come lavora. Tanto solo Syrah fanno di rosso. A partire da C'est Le Printemps 2012. Che è l'etichetta base del duo, piante giovani che vengono dalla Mercurol meno vocata, metà in botti vecchie, metà in acciaio, imbottigliata in marzo e, voilà, E' Primavera. Quando apri una bottiglia di Dard & Ribo, è come se loro ti guardassero dall'angolo mentre versi il vino e iniziassero a dire: "Bevi, bevi bevi!". E' quello che vogliono. Vini da bere, da godersi nell'immediato e si fotta tutto il resto. Vogliono vedere che finisci la bottiglia e in fretta. C'est Le Primtemps va più che mai dritta al sodo. Colore violaceo, frutti rossi a go go, nessun legno a interferire ma solo speziatura ed erbaceo dell'uva, discreta consistenza e acidità. Non un vino lungo, niente rarefazione. Un solido vin de soif che mantiene quello che promette. Un 86/100 e carpe diem.
Il Crozes-Hermitage 2011 è il passo successivo. Dove la materia diventa più complessa. Il salto di peso specifico delle uve porta ad una sensazione tattile di maggiore densità e innerba il frutto, lo  inspessisce ampliandone spettro e qualità. Sempre col loro french touch, sempre dalla parte del velluto, sempre con una bella-e-buona acidità ad evitare di sedersi. Un 2011 che non raggiunge le vette della 2007, a cui manca lo scatto finale del godimento totale. Però saluto Dard & Ribo con la bottiglia vuota, scrivo su un foglio 89/100 per non farli incazzare, un rapido cenno d'intesa e alla prossima boccia.
Che è il Crozes-Hermitage Les Rouge Des Baties 2011. La cuvée di vigne vecchie. E qui la domanda che ci si fa ogni volta, si amplifica: ma come fanno? Come fanno a ottenere un frutto così netto, fragrante, pulito, e, allo stesso tempo, a far si che il tutto appaia naturale, terrigno, dinamico? Come fanno i loro vini ad essere chirurgicamente perfetti e quasi misticamente rarefatti eppure capaci di farti trovare quella sbavatura al punto giusto? Perché Les Rouge Des Baties è come una monocromia di Mark Rothko, un Rumore Viola che racconta di cielo e terra e luce, il colore puro, essenziale e monolitico eppure così fragilmente umano. Un frutto Syrah al punto di maturazione perfetto e una nota sanguigna di sottofondo. Un sorso a tuttotondo che si increspa appena, come un mare calmo e la brezza che ne arriccia le punte. Tutto si gioca sull'equilibrio, sulla materia, sul dolce/amaro in luna di miele. Perché questa non è poesia. E' un reportage sullo stato dell'uva a Mercuriol, Rodano, Francia, Terra, Universo.
Elogio dell'(im)perfezione, 95/100, e au revoir, soif.



Forse.

Nota 1: ironia della sorte, il vero e proprio Tour De France 2013 era a Nizza in quei giorni con tutto il baraccone di atleti dall'abbigliamento imbarazzante e le pupille dilatate, di pulmini giallo canarino che sparano a anta-decibel qualcosa di incredibilmente simile a una cassetta Bimbo Mix, di gente con un badge al collo grande quanto un polmone e un teleobiettivo da Dumbo, di famiglie franco-galle con la più alta percentuale di baffi a manubrio che abbia mai visto, di ondate variabili di misto sudore-fritto-salsedine-canfora-ciclamini-merda, di souvenir e gadgets, di ciclisti della domenica (anche se era, in effetti, martedì) decisamente sovrappeso e letteralmente collassati su biciclette ultraleggere in carbonio monoscocca, di uomini/sandwich in forgia di gallo o cellulare, di tonnellate di carta, flayers e promozioni e pubblicità e 3x2 e menù fissi e carta carta carta...
Nota 2: facendo un rapido calcolo, L'Enfant Terrible è costato €35 che divisi per i 23 minuti necessari alla sua assunzione da parte di 2 adulti consenzienti, porta al dato di €1,521 al minuto (ossia, €0,7605/minuto per persona), dato che non so bene da che parte pigliare e che, indubbiamente, dovrà essere ampliato con altre variabili come lo stato psico-fisico, le condizioni atmosferiche, la disponibilità finanziaria e altro, tra cui, non ultimo, il grado di piacevolezza. Una volta messa a posto la formula, credo che ne verrà fuori una roba interessante. Vi farò sapere.