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giovedì 31 gennaio 2013

Ho rimandato fin troppo questo momento


Ho rimandato fin troppo questo momento, forse perché la scelta che stavo facendo era difficile, tormentata anche  se naturale e in qualche misura entrava in collisione con la mia attività di blogger (sempre che di attività si possa parlare) che tante soddisfazioni mi ha riservato negli ultimi tre anni.

Oggi dopo un week end a Montpellier durante il quale mi sono trovato ad impersonare, con difficoltà e lieve struggimento, due figure se non antitetiche quantomeno in conflitto di interessi: quella del "commerciale" (che brutta parola) e quella del blogger, ho deciso di “vuotare il sacco” pubblicamente e rendere edotto il mio pubblico che da pochi giorni, meno di un mese, vendo i vini di Arkè e di Mineral, per adesso non ho ancora venduto una “beata fava” però mi sto impegnando.
Quindi come è d’obbligo e di rito vi giuro che non recensirò più vini che sono nel listino dei due selezionatori.
Tranne tre eccezioni:

il 4 del prossimo mese parlerò del Munjebel rosso 8 e ne parlerò perché l’ho bevuto grazie a Gil Grigliatti che ne è un profondo ammiratore e che mi ha fatto cambiare idea su questo vino.

Il 15 parlerò del Munjebel bianco 7 e ne parlerò perché l’ho comprato io a Solicchiata nell’agosto del 2011 e non l’ho mai bevuto perché non amavo la figura un po’ alchemico/istrionica di Cornelissen sino a che Gil mi ha fatto assaggiare il rosso.

Il terzo post in conflitto di interessi, non ancora scritto, sarà quello su Stefano Amerighi.
Ci ho pensato tanto e alla fine ho deciso che non posso negarmi la possibilità di parlare di una persona speciale, la sua umanità d’antan, gentilezza, ironia e grande cultura enoica (anche se un po’ monotematica (ironia)) mi ha colpito molto e ha reso un lavoro duro (gli assaggi seriali a Montpellier) un gioco divertente e ricco ed io al suo cospetto mi sentivo profondamente ignorante.

Per cui mi son detto che se questa nuova attività mi permetterà di imparare e conoscere persone preparatissime e grandi degustatori come Stefano, Rolando, Francesco, il conflitto di interessi è il male minore, anzi è un problema trascurabile, perché ho fame di conoscenza e mi pare di avere intrapreso la strada giusta per me e per voi che mi leggete.
Di certo non scriverò per pubblicizzare la mia attività di agente, se lo facessi non riuscirei a guardarmi in faccia la mattina e sono certo che voi lettori non avete alcun dubbio sulla mia buona fede.

Luigi

mercoledì 30 gennaio 2013

Kriek Girardin 1882, brassè e soutirée par Brouwerij Girardin, Belgium



Ad inizio anno ho scritto di una Oude Gueuze e delle sue capacità taumaturgiche di lavar via gli eccessi di fine d’anno.
L’adesione completa alla mia tesi da parte di Enrico Nera, italiano con residenza in Belgio e di Vittorio Rusinà  mi hanno spinto a scrivere (bere le bevo più che posso) di una Kriek.

Senza che i cultori di Lambic mi lapidino, la Kriek si potrebbe definire una “birra acida entry level” (anche se so bene che non è proprio così).
La si ottiene miscelando ad un Lambic delle griotte intere (ciliegie più simili alle amarene) all’interno delle botti, il nuovo apporto di zuccheri fa riprendere la fermentazione.
Insomma, per gli aspetti tecnici visionate il pdf di Kuaska.
Il risultato è una birra complessa con due piani di lettura e bevuta.
Profumi acidi da Lambic e profumi dolci di ciliegia.
Bocca urticante di acidità scontrosa e vaghe morbidezze fruttose e benevole.
Il tutto sempre sotto sale.
Questa Kriek mi è piaciuta moltissimo perché le dolcezze sono giocate sul filo sottile della memoria e dell’allusione e mai della stucchevolezza.
Birra complessa con toni e colori ossidativi.
Mi piacerebbe provarla con salame fresco e lardo, chissà cosa ne dice Enrico?
Birra assaggiata con Lorenzo Losi nel suo birrificio Blackbarrel a Torino, via Principessa Clotilde 98/b.
Kampai

Luigi


lunedì 28 gennaio 2013

Pinot Nero “Nino” 2008, Iuli di N.Desenzani


Si potrebbe aprire un interminabile capitolo sul Pinot Nero in Italia.
Per la verità io sono estremamente ignorante su questo vitigno, per bieche ragioni di costo.
Se vuoi berlo a buon mercato devi andare in Oltrepo o al limite in VdA. Qualcosa trovi dal Nord Est, se no vai di Trentino e soprattutto di Alto Adige, ma sono vini che non conosco e nel mio immaginario fanno capo a sé stessi. Una volta ho bevuto un PN del Mugello, che ricordava la Francia, ma solo per il sapore di quercia, senza dubbio proveniente da qualche bosco d’oltralpe (adesso esagero)!
Comunque non ho mai trovato vini che assomigliassero all’idea approssimativa di Pinot Nero che mi son fatto attraverso qualche assaggio dalla Francia (non solo dalla Borgogna).
Conclusione, in questi anni di enopassione, solo pochi assaggi qua e là o quando avevo un’occasione speciale.
Ricordo con gran piacere un PN base 2008 di Pierre Morey portato da un amico a cena, e con ancora salivazione al solo pensiero, il PN “LN012” 2005 di Schueller, tracannato qualche mese fa, ricevuto direttamente da Parigi tramite un caro amico che, sbagliando etichetta, mi ha impoverito di un po’, ma mi ha fatto scoprire un fuoriclasse.
Tutto per dire che quando ho visto il Pinot Nero di Iuli in offerta, l’ho colta al volo. Ogni tanto si deve pur rischiare. In realtà da quel che so delle persone che stanno dietro a quel vino, c’è conoscenza profonda del vitigno e grande passione per decidere di coltivarlo in Monferrato in Val Cerrina, in una vigna che guarda verso la Francia, con gli inevitabili rimandi immaginifici.
Vado dritto al dunque.
Il “Nino” 2008 di Iuli mi è piaciuto un casino. Non solo e non tanto per averci ritrovato quello che cerco dal vitigno, ma per la netta impressione di bere un vino che sembra quasi autoctono. Quello che voglio dire è che è come se arrivasse dalla tradizione del luogo. Non imita. E’ come una Barbera in quelle terre. Nel bicchiere il territorio e lo stile arrivano benissimo, attraverso questo Pinot Nero, in modo naturale, con le note belle di cipria, grande freschezza e una beva eccezionale.
E allora, se piantare quella vigna potè sembrare un azzardo, una sfida, un capriccio o un colto divertissement, non ci resta che constatare che ciò che ne è sortito è un bel vino, che guarda verso le Alpi, a occidente, con fiero sguardo di chi ha trovato la propria casa.

venerdì 25 gennaio 2013

Faro-Lambic, brassè et embouteillè par la brasserie Lindemans, Belgium


“Cos’è ‘sto Faro?” chiedo a Renzo Losi
“Una birra a base Lambic con caramello in aggiunta” risponde laconico.
Lambic+zucchero caramellato=birra che potrebbe soddisfare il mio palato infantilmente attratto dal dolce!

“La prendo!” insieme aggiungo una Kriek di Cantillon e una ale scozzese prodotta con l’erica al posto del luppolo.
Renzo mi rende edotto sul fatto che il luppolo è stato introdotto in purezza solo recentemente nella storia millenaria della birra e che prima si usavano dei bouquet garnì di erbe la cui composizione era segreta.
Comunque corro a casa e lascio sfreddare fuori e poi stappo il mio Faro.
Ed è ambrata, profuma di caramello amaro e Lambic e cantina e pelle di salame.
Suadente, ricca molto morbida e orizzontale per essere una Belga.
L’acido viene fuori e stabilizza le morbidezze su livelli per me ottimali (comunque bassi).
Una birra Demi-sec che potrebbe far impazzire in abbinamento alle ostriche.

Birra del popolo leggo nella storia brassicola Belga.
Non facciamola mancare al popolo, allora!
Kampai

Luigi

mercoledì 23 gennaio 2013

Serragghia Rosso 2010, Giotto Bini di N.Desenzani



Giusto pochi giorni fa parlavo in un post di come un equilibrio fra la riconoscibilità e l’espressività fosse spesso alla base di vini riusciti e mi son ritrovato a bere il Serragghia Rosso 2010 di Giotto Bini.
Da un inedito blend di catarratto, pignatello (perricone) e fanino, un vino senza solforosa, che viene vinificato interamente in anfore dapprima fermentato a cielo aperto e poi lasciato tre mesi sulle bucce.
Insomma il classico processo georgianlike, Gravnerlike, alternativo figo.
Che in questi anni ha spaccato i bevitori in schiere che si accapigliano per affermare se questi vini siano buoni o ciofeche.
Io che sono fottutamente votato, spesso mio malgrado, alla saggezza penso che la risposta sia, ahi noi, “caso per caso”.
Ebbene, tornando al Serragghia, lo ammetto, non mi è piaciuto. O meglio, non mi è dispiaciuto, ma, considerando che costa solo tra i 40 e i 50 eurini avrei chiesto qualcosa di più.
Molto di più.
Indubbiamente estremo nell’espressività, a mio parere diviene irriconoscibile: nei vitigni, la provenienza, lo stile del vignaiolo.
Un generico maceratone in anfora.
Certo la salinità, l’acidità e il tannino restituiscono un vino di grande impatto, ma mentre svuotavo questa bozza, peraltro salubre e a suo modo piacevole, pensavo:
che occasione persa!

lunedì 21 gennaio 2013

Op Barbera Doc, Antica Vigna, 2003, az agr Collina del Sole di Vittorio Rusinà



“Pronto Azienda Agricola Collina del Sole?”… “Sì”  risponde con voce soffusa una persona molto anziana…”Telefono da Torino, ho bevuto una vostra barbera, la Antica Vigna”…”Ah sì”…”Ecco volevo sapere se fate ancora la barbera?”…”Ma certo che sì”…”Ma io ho visto sul vostro sito web che non c’è più”…”Per quelle cose lì deve parlare con Paolo che torna alle 14”.

Qualche giorno fa trovo in cantina una bottiglia “dimenticata”, è la Op Barbera Doc, 2003 Antica Vigna di Collina del Sole, piccola realtà artigianale dell’Oltrepo’ Pavese, resto di un ordine che avevo fatto qualche anno spinto da alcuni video-appelli del vignaiolo “garibaldino” Paolo Caorsi, primissimo ad usare i video e YouTube (fine 2008) per promuovere il vino, un uomo semplice “senza tanti fronzoli”, diretto e, fatemelo dire, geniale nell’aver intuito la forza dei video sul web, cosa che rimane ancora oggi oscura a molti vignaioli più famosi e “sofisticati”.

Non mi aspettavo grandi cose da questo vino e invece ecco che sorpresa si rivela grande, oserei grandissimo, un campione fra le barbera ultimamente degustate per l’ormai prossimo #barbera3, un perfetto equilibrio fra acidità e dolcezza che conquista il mio cuore, un vino con ancora vita davanti a sè, barbera what else?

“Pronto è il signor Paolo Caorsi?”…”Sì”…“Io sono un suo vecchio cliente da Torino, la fate ancora la barbera, la Antica Vigna ”…”Mmmm sì ne abbiamo ancora, pochina, ma l’abbiamo”…”Ah ecco, avevo dei dubbi perchè sul sito non viene più citata fra i vini prodotti”…”Eh lì abbiamo quelli che vanno di più”…”Ma la barbera c’è ancora lei mi assicura?”…”Sì c’è ancora, l’abbiamo pure in negozio a Pavia, in viale Matteotti, abbiamo anche quella barricata”…”No a me basta quella lì senza legni”

Vittorio




domenica 20 gennaio 2013

Vi propongo un altro estratto


Vi propongo un altro estratto da “Gola” di John Lancester il capitolo è sempre lo stesso del precedente il cui titolo è: “Un menù invernale”

“L’inverno deve essere visto dal cuoco come una possibilità di dimostrare, attraverso l’arte culinaria, la sua padronanza dell’equilibrio e dell’armonia e al sua concordanza con le stagioni; di esprimere le profonde consonanze fra il proprio ritmo e i ritmi della natura. Le papille gustative devono titillate, vezzeggiate, stimolate. Il menù che segue è un esempio di come ci si possa riuscire. I suoi sapori hanno un’intensità che ben si addice a quei mesi dell’anno in cui le nostre papille gustative sono più torpide.

Blini con panna acida e caviale
Irish stew
Regina delle Torte

Delle tante crespelle, frittelle e cialde esistenti – crepes e galettes; krumkakor, sockerstruvor e plattar svedesi; tattoriblinit finlandesi; aggvaffla della Scandinavia in genere; brigidini italiani; gaufrettes belghe; nalsniki polacchi; pudding dello Yorkshire – i blini sono i miei favoriti. I tratti distintivi del blini, quale membro dell’allegra famiglia delle frittelle, sono il suo spessore (contrapposto alla sottigliezza), la consistenza (contrapposta alla mollezza), e l’uso del lievito (contrapposto al bicarbonato di sodio); è russo; e, come la frittella saracena bretone, è fatto di grano saraceno (contrapposto al fior di farina). Il grano saraceno non è una graminacea, e dunque non è un cereale, e dunque non cade sotto la protezione della dea Cerere, la divinità romana che presiedeva all’agricoltura. Nel giorno a lei dedicato, in una cerimonia singolarmente evocativa, nel Circo Massimo venivano liberate volpi con la coda in fiamme: nessuno sa perché. L’equivalente greco di Cerere era la dea Demetra, madre di Persefone. Era in onore di Demetra che si tenevano i Misteri Eleusini, in ricordo dell’occasione in cui ella fu costretta a rivelare la propria divinità per spiegare perché tenesse sul fuoco il figlio neonato di Celeo: sicuramente una cosa difficile da motivare e un momento di grande imbarazzo… anche per una dea.
Blini. Setacciate 120 gr. Di farina di grano saraceno, mescolate con 15 gr di lievito (sciolto in acqua tiepida) e 1 dl di latte caldo, lasciate riposare per un quarto d’ora. Mescolate 120 gr di farina bianca con 1 dl di latte, aggiungete due tuorli d’uovo, un cucchiaio di zucchero, un cucchiaio di burro fuso e un pizzico di sale, unite i due impasti. Lasciate riposare per un’ora. Aggiungete due albumi montati a neve. Bene. Ora scaldate una pesante padella di ferro del tipo che nelle due lingue classiche si chiamava placenta: che è anche , come ognun sa, il nome dell’amnio o involucro in cui vive il feto all’interno dell’utero. Nascere avvolto nella placenta, come me, è per tradizione un segno di buona fortuna che conferisce chiaroveggenza e preserva dalla morte per annegamento; i marinai superstiziosi erano disposti a pagare carissima una placenta che qualcuno aveva conservato invece di gettarla. Freud era nato avvolto nell’amnio, come l’eroe del suo romanzo preferito, David Copperfield. Talvolta, se in famiglia c’è più di un discendente, uno nato nella placenta e l’altro no, la palese differenza fra i due in termini di fortuna, fascino e talento può essere ingiuriosamente grande, e il fatto che l’uno sia nato nella placenta può essere causa di rabbia e gelosia intense, in particolare quando questo dono è accompagnato da altre doti personali e artistiche. Occorre però ricordare che, se è antipatico essere il fruitore di simili emozioni, è però di gran lunga più avvilente essere la persona che ne fa le spese. Dire che il vostro fratellino cinquenne vi ha buttati giù da una capanna tra i rami, per esempio, facendovi rompere un braccio, quando in realtà siete caduti tentando di arrampicarvi più in alto di lui al fine di conquistare il posto d’osservazione migliore per spiare nella stanza della tata, è un modo meschino di vendicarsi di quel fratello più giovane che ha ammaliato la ragazza cogliendone la somiglianza con cinque colpi decisi delle dita spalmate di colore e porgendole poi timidamente il manufatto con una poesiola dedicatoria (Questa Mary T., è per te / che sei la sola per me) scritta in testa al foglio con matita gialla.
Quando la padella comincia a fumare, aggiungete con decisione un piccolo mestolo di pastella, tenendo conto che ogni cucchiaiata dovrà, gonfiando e allargandosi, diventare un blini e che le dosi qui indicate sono per sei persone. Rigirateli quando sulla loro superficie cominciano a comparire delle bollicine.
Servite queste frittelle con panna acida e caviale. La panna acida è di una semplicità assoluta e, se avete bisogno di consigli o norme in proposito, meritate soltanto la mia pietà. Quanto al caviale – le uova mondate  e salate dello storione -, la cosa è un po’ più complicata.
Con abbondanti aggiunte di panna acida e caviale, la suddetta ricetta – preferirei la desueta grafia “recetta”, ma mi è stato fatto notare che “se la chiami così, nessuno capirà di che c…o stai parlando” – costituisce come antipasto, una quantità sufficiente per sei persone, considerando qualche blini per ciascuno. Forse l’ho già detto. E’ ragionevole preparare un intero pasto a base di blini soltanto se si pensa di trascorrere il resto della giornata nella taiga, a vantarsi dei successi con le donne e a sparare agli orsi.”

Io al blini con panna acida e caviale abbinerei un Jerez fino tipo questo.
Buona Domenica.
Luigi 

venerdì 18 gennaio 2013

Gueuze Fond Tradition, Brouwerij Van Honsebrouck, Belgium


Continua il mio viaggio solitario nel mondo dei Lambic.
Continua malgrado un certo disinteresse da parte del mio inclito pubblico di enolettori.
Devo dire che è una delle poche bevande alcoliche che preferisco bere in completa solitudine.
Non capisco il motivo ma è così e mi piace rintanarmi nel mio studio attorniato da pile di carte, appunti, riviste e stapparmi in maniera un po’ clandestina questi Lambic.
Un godimento, una piccola evasione quotidiana.
Ebbene stasera ho aperto un puledro scalpitante di acidità siderali e durata dei sapori intensi e salati che sfiorano  la mezzora.
Profumi elegantissimi, potenti che anticipano una birra affusolata, tagliente, costruita sulle durezze acido-amaro-sapide-tanniche (un velo tannico lo lascia sulle gengive) e insieme formano un costrutto impressionante, anche se non facile da apprezzare.
Estremi, portati al parossismo che costruiscono una sorta di stabilità organolettica fragile, dura ma incredibilmente equilibrata.
Forse non una Gueuze da consigliare ad un neofita.
Però molto buona e accattivante.
Scrivendo risento il salato sui lati della bocca e l’acido citrino sulla lingua.
Kampai

Luigi

mercoledì 16 gennaio 2013

Giovanni Canonica, Barbera d’Alba Doc 2010


Sul percorso lastricato di insidie e di scoperte che sta portando Vittorio, Niccolò e lo scrivente verso #barbera3 e una successiva degustazione, ancora rigorosamente segreta, ci siamo imbattuti in un vino mito.
Mito perché prodotto in un numero limitatissimo di bottiglie, mille o giù di lì da un barolista anarchico come Giovanni Canonica.
Sentito al telefono mi conferma che di Barbera 2010 non c’è ne più e che le uve facevano sui 10,50 gr/l di acidità totale e dopo la fermentazione alcolica e la malolattica è rimasta sui 6,5 gr/l o giù di lì.
Ti sgrigna le papille e ricorda i lamponi (stesso profumo che ho sentito nella Barbera  2012 di Cascina Roccalini, mosto/vino con acidità siderali) e poi va giù caustica, chiede a gran voce salumi o agnolotti burro e salvia.
Un vino gastronomico, impensabile senza cibo e senza calore delle chiacchiere.
Una barbera per gente di Piemonte che non si spaventa di fronte all’acido quasi verdeggiante della barbera giovane.
Poi amarene e dolcezza appena accennata.
Beva iperuranica (cit).
Glu glu
Peccato sia finita e peccato non ci siano vecchie annate.
Anche se Giovanni Canonica mi ha detto che vendemmie così ricche di acidità era un po’ che non faceva, comunque sia mi piacerebbe sentire cosa fanno gli anni su questa trama scalpitante.
Vinificata in anarchia in vetroresina o in cemento, in base alla disponibilità dei vasi e alla quantità delle uve.
Molto lontana dallo stereotipo della Barbera d’Alba morbida e nebbioleggiante.
Kampai

Luigi

Ps
Paolo Veglio di Cascina Roccalini, Barbaresco (CN)  mi ha detto che la Doc Barbera d’Alba vuole rivedere al ribasso l’acidità totale, se fosse vero sarebbe una sciocchezza immensa, il connubio dolcezza/acidità sono l’anima della Barbera.

lunedì 14 gennaio 2013

La Corsica è un'isola di N.Desenzani

La Corsica è un'isola. Ma va?
Per me rappresenta l’esempio che mi ha spiegato il concetto per la prima volta.
Infatti le mie vacanze da neonato, fino ai primi anni ’80, sono sempre state corse.
Se è vero che il senso dell’isola te lo dà l’imbarco sul traghetto, è ancor più vero che una volta che sei di là, il tuo universo si ricostituisce a misura di figura chiusa, delimitata dal mare.
Il pensiero è unificante.
L’isola ha le montagne, l’isola ha il mare. L’isola ha la sua storia, spesso identitaria e tendente all’indipendentismo. Essere isolano è più forte di una nazionalità. Potrei andare avanti, ma credo che chiunque sia sbarcato su una terra circondata dall’acqua, possa intuire o aver ben presente o ancor meglio di me interpretare ciò che sto dicendo.






Le mie vacanze corse, da subito furono vacanze naturiste. Perché quella era la tradizione fondata dalla mia famiglia. Un’anomalia nel panorama delle famiglie italiane, dove il nudo spesso è peccaminoso, il sexy bikini invece santificato… ma questa è altra faccenda.
Invece come pratica il naturismo è concepito come “un modo di vivere in armonia con la natura, caratterizzato dalla pratica della nudità in comune, allo scopo di favorire il rispetto di se stessi, degli altri e dell'ambiente”.
Al di là di false ideologie o gusti personali, una delle categorie che io credo di aver recepito da quest’esperienza è una spontanea capacità di apprezzare la bellezza dei corpi senza vestiti, indipendentemente dal fatto che siano corpi maschili o femminili, giovani o anziani. Così come si apprezzano le geometrie delle piante o i disegni delle pietre. L’estetica della natura per l’appunto.
La Corsica è anche un posto molto vocato per la viticoltura. Molto vario, con terreni e climi differenziati, e non di rado uve rese autoctone da una tradizione millenaria.
Fra i principali vitigni sicuramente il vermentino fa la parte del leone per i bianchi, niellucciu e sciaccarello per i rossi.
Il niellucciu dicono che sia parente strettissimo del sangiovese e i risultati in bottiglia paiono confermare quest’ipotesi.
Ciò che non è per nulla facile è trovare vini naturali in Corsica.
Ma forse le cose stanno cambiando.
Fra i vini scoperti l’estate scorsa, meritano un posto particolare le produzioni di Nicolas Mariotti Bindi. Figlio di notabili di Bastia e destinato a un futuro della stessa specie, Nicolas è stato folgorato dal vino sul suo cammino, e dopo un apprendistato nella zona del Moulin à Vent sul continente, e un periodo dal grande saggio del vino naturale corso, Antoine Arena, è diventato chef de culture al Domaine Leccia, storico marchio della zona di Patrimonio e infine, aiutato da Orenga de Gaffory, discendente di una casata di nobili produttori storici, che gli ha dato in gestione delle vigne di vermentino e di niellucciu semi incontaminate,  ha cominciato a produrre i suoi, personalissimi, vini. Due le etichette: un Vermentino dal nome Le Pastoreccie, e un Niellucciu anch’esso in purezza dal nome evocativo di Porcellese Vieilles Vignes.
La scelta di Nicolas è stata senza scorciatoie, naturale. Ma con un gioco di prossimità lessicale o paronimia, l’impressione che ho avuto dei suoi vini è stata quella di vini naturisti.
Artefice della coltura biologica in vigna e del minimo intervento in cantina, Nicolas sceglie di vinificare in acciaio, di non chiarificare, di non filtrare.
I risultati sorprendono. Nel caso del Vermentino ho trovato un vino di acidità moderata, ma che esibisce una consistenza e una vitalità che lo rendono al contempo digeribile e rinfrescante, semplice e raffinato. Un vino che mi ha emozionato. Il Nielluccio è scalpitante, fra il rustico e un inizio di affinamento da bottiglia, che punta invece drittto all’eleganza fra note vegetali e animali, fruttate ed evolute al contempo.
E dunque, per giochi dell’immaginazione e delle nostre sensibilità inascoltate bere questi vini mi fa immaginare l’Isola, quando sono lontano, e, in particolare il Le Pastorecce mi ha vivificato il ricordo corporeo di un tuffo nel mare di Corsica.
Nudo.
Ovviamente.

domenica 13 gennaio 2013

Sapevo di avere un libro strano, di ricette


Sapevo di avere un libro strano, di ricette, molto anomalo, pervaso di grande cultura non solo gastronomica, scritto da un personaggio ironico che si percepisce cittadino del mondo e questo talvolta nella mia ipersciovinista città, regione, nazione è una medicina per il cuore.
L’ho ritrovato proprio ieri, e fin qui tutto bene, sapevo dov’era, ciò che non ricordavo era dove l’avessi comprato.
Ho scoperto che l’acquistai una decina d’anni fa alla Holden Libri a Torino in piazza Bodoni (non cercatela è stata chiusa dopo pochi mesi dall’apertura).
Io la vedevo come un progetto, sicuramente anche una vetrina per la scuola, interessantissimo improntato sui valori culturali, sentimentali, sulla generosità, veicolati dalla lettura, più che una impresa commerciale (infatti non tardò ad arrivare la sua chiusura).
C’erano pochi libri, dieci o venti non ricordo esattamente, ogni libro era consigliato dagli scrittori che insegnavano alla Scuola Holden.
Nessun interesse ad avere tutto il catalogo di questo o quest’altro editore, nessuna ossessione per le novità, per i best seller, sugli scaffali (per altro molto belli così come gli arredi della libreria) c’erano solo le opere che più avevano, in qualche modo, toccato il cuore di altri scrittori.
Trovavo, allora come adesso, molto bello questo atto di elegante generosità (cit).
Scrittori consigliavano altri scrittori, molto nobile e stimolante.
L’unico aspetto negativo è che non ricordo più chi fosse colui che consigliava l’opera di cui ho intenzione  pubblicare nelle prossime domeniche degli spezzoni, sinchè ne avrò voglia e la cosa mi divertirà.
Naturalmente sta a voi inclito pubblico indovinare l’autore e il titolo dell’opera.

Un menù invernale

A Winston Churchill piaceva ripetere che l’ideogramma cinese per la parola “crisi” è composto da due caratteri che, separatamente, significano “pericolo” e “possibilità”.
L’inverno offre al cuoco una combinazione analoga di minaccia e di occasione. Quell’inverno che, forse, è il responsabile di un certo abbruttimento del palato nazionale britannico, e di una concomitante inclinazione per le inique misture agrodolci, le salamoie aggressive, gli intingoli piccanti e i ketchup. Per questi ultimi in particolare. Ma la minaccia dell’inverno è anche, più semplicemente, quella di un eccessivo indulgere ai cibi pesanti. I lettori nordeuropei non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni: il termine “cibo pesante”, il concetto di “cibo pesante” abbraccia un universo familiare di sbobbe insensate, di dannosi grassi saturi e di carboidrati concentrati. (C’è un genio malevolo anche nel solo nome “Brown Windsor Soup”.) E’ uno stile culinario che ha raggiunto il suo apice nei colleges inglesi; e, pur se a me sono stati risparmiati gli orrori di un tipo simile di istituzione “i miei genitori, ritenendo a ragion veduta che la mia natura fosse di grana troppo fine e sensibile, mi affidarono, all’epoca, a una serie di insegnanti privati”, ho ricordi vivissimi delle rare visite che feci a mio fratello durante la sua incarcerazione in gulag diversi.
Mio fratello ci seguiva imbarazzato. Io riesco ancora a sentire il sudore dietro le ginocchia. Una tozza e goffa sagoma ariana di prefetto, un farabutto dichiarato, prepotente e cocco degli insegnanti, recitò nel silenzio le parole latine della benedizione.
Sedemmo poi davanti a un pasto che nemmeno Dante sarebbe stato in grado di concepire. Io ero di fronte ai miei genitori, tra una sferica governante e un silenzioso assistant francese. La prima portata consisteva in una zuppa dove i pezzi di inequivocabile, spudorata cartilagine galleggiavano in una salsa fangosa che, per struttura e temperatura, ricordava molto da vicino il moccio. Poi un pentolone fumante fu posto al centro del tavolo dominato da mascelluto cipollonato direttore. Questi immerse il braccio da officiante nella pignatta e ne trasse una mestolata di cibo caldo, che fumigava come sterco fresco di cavallo in una rigida mattina. Per un momento frastornante pensai che avrei vomitato. Un piatto di soi-disant torta rustica –la carne trita grigia, le patate color marrone- mi venne messo davanti.
“I ragazzi la chiamano carne del mistero, confidò allegramente la governante. Sentii l’assistant fremere. Altro non riesco a ricordare (non posso immaginare) di ciò che dicemmo, e su tutto il resto del pranzo la Musa della storia deve stendere un velo”.


Mi pare inutile suggerire che l’autore è suddito di sua Maestà Elisabetta II° Regina del Regno Unito.


Luigi

venerdì 11 gennaio 2013

Barbera d’Asti Doc, Vigna del Noce, 2004, Trinchero



Sul percorso lastricato di insidie e di scoperte che sta portando Vittorio, Niccolò e lo scrivente verso #barbera3 e una successiva degustazione, ancora rigorosamente segreta, ci siamo imbattuti in una versione complessa e terrosa e nobile della Barbera della rive droite del Tanaro.
Come plastilina il vitigno si piega alle intenzioni del vinificatore che estrae dai succhi dell’uva una visione, delle migliaia possibili, dei luoghi in cui le piante affondano le radici.
Meglio se queste radici hanno più di  ottanta anni.
Più complesso sarà il loro racconto.
Come quello della Vigna del Noce, un crù o forse una vieille vigne o entrambe?
Perché certe volte la differenza fra le due cose non è ben chiara e non si capisce se il vino è buono per questioni pedoclimatiche o perché in questo pedoclima si sono coevolute le piante che, ormai vecchie, sono in simbiosi con l’ambiente e il consorzio microbico e ne estraggono il genius loci.
Barbera sontuosa questa che fa sussultare sulla sedia.
Densa ma vibrante, terrosa e affumicata, mentolata e ciliegiosa con venature di arancia rossa.
Nobile direi.
Kampai

Luigi

Ps
Nel caso di Trinchero “estrarre dai succhi dell’uva una visione” è quanto mai letterale, questo vino è stato macerato per trentatre giorni sulle bucce, non proprio uno scherzetto per la barbera.

mercoledì 9 gennaio 2013

Farneticando di estetica enoica di N. Desenzani



Fra le caratteristiche dei vini che potremmo dire grandi, sicuramente giocano un ruolo fondamentale la  riconoscibilità e l’espressività. Ma talvolta ciò che definitivamente suggella il capolavoro è l’eleganza.
Ciò che trovo interessante delle prime due qualità è che per definizione esse sono in parte contrapposte.
Infatti un estremo della riconoscibilità è l’omologazione. Così chiunque riconoscerebbe la Coca Cola in mezzo a tutte le bibite. Viceversa l’espressività al limite porta a isolare un singolo caso con tutte le sue peculiarità. Ma potrebbe anche virare verso l’eccessiva stranezza, l’anomalia, il difetto macroscopico.
E’ un principio che crea dinamismo quello di stare fra due parziali opposti.
E’ un principio morfologico.
E’ un principio matematico.
Le combinazioni, le sfumature fra le due qualità sono quasi infinite.
La riconoscibilità in questo quadro è spesso ottenuta grazie a condizioni particolari delle vigne insieme a processi e ambienti di vinificazione sui generis. L’eccezionalità del luogo e lo stile del produttore.
Se pensiamo al Trebbiano di Valentini, è facile indovinarlo alla cieca, quasi soltanto infilando il naso nella bottiglia. E’ trebbiano, ma con caratteristiche peculiari, e in cantina il processo, che vede l’uso di grandi e vecchi legni e l’imbottigliamento precoce, marcano uno stile fatto di sentori golosi di torrefazione combinati a esiti fermentativi in bottiglia, puzzette che dinamicamente scoprono profumi e piccoli refoli carbonici che mantengono il liquido vivo e ben conservabile. E ogni anno è differente.
Se pensiamo a Montevertine, ecco che c’è tutta la tensione del blend chiantigiano, ma anche uno stile balsamico tra il piccante e il mentolato come a raffinare la golosità della materia sottostante.
Infine, e qui casca l’asino, il Barolo Brunate Le Coste di Giuseppe Rinaldi. Qui per me c’è sempre qualcosa che sfugge. E’ un vino che le poche volte che l’ho bevuto mi ha sempre messo addosso una fregola, una sete compulsiva, che forse solo il nebbiolo… Una materia dunque di estremo equilibrio. Golosa, ma mai eccessiva. Facile, ma piena di suggerimenti. Multicolore, ma mai sgargiante. Intensa, ma non così tanto. Jacopo Cossater quando parla di questo splendido vino, trae spunto dal
l'annata 2005 lo definisce generoso per parlare della generosità. Io lo capisco, ma a me la parola che viene sempre è venuta in mente le due volte che ho bevuto quell'annata è elegante.
In fondo credo che i due concetti abbiano in comune più di quanto appaia di primo acchito. Perché l’eleganza è proprio la via di mezzo resa speciale. Rifiuto dell’eccesso e dell’appiattimento, stupisce attraverso l’articolazione fine delle componenti, senza mai scadere nel ruffiano. Stile e materia prima.
Ma l’eleganza, mi piace pensare, è anche la capacità di trasmettere il capolavoro, di renderlo comprensibile, di permettere a tutti di toccare la bellezza. L’eleganza è coinvolgente, dà sempre qualcosa a chiunque posi la propria attenzione. Regala un’emozione, senza chiedere nulla in cambio.
L’eleganza è generosa.

Nota: ho introdotto posticce correzioni (cancellato e sottolineato) e il link al post di Jacopo Cossater perché l'avevo citato a memoria in modo impreciso. Infatti la generosità si riferiva proprio all'annata 2005, non al vino in generale. Siccome quella è l'annata che conosco meglio, avendone acquistate due bottiglie l'anno scorso grazie a un premio donato da Vinix, ho sovrapposto le mie impressioni a quelle di Jacopo e ho commesso un errore nel generalizzare.

lunedì 7 gennaio 2013

Viaggio lisergico

fonte italia a tavola.net

Geografie intuitive o reali?
Ho visto come delle lucine accese disposte a macchia di leopardo sull’Italia
Castiglione Tinella, Carpaneto Piacentino, Vò, Saracena, Marsala, Pantelleria
Cosa le lega?
Si sono accese come spot
Recenti assaggi e ancora più recenti espansioni di coscienza hanno disegnato una geografia di coerenze lontane e discontinue e ricorsive
Filo conduttore il moscato
Un trait d’union di profumi e assonanze che hanno legato luoghi così lontani
Luoghi di terra e anima, distillati e interpretati dall’aerea inconsistenza di effluvi odorosi
Mi è parso di capire e di viaggiare da un punto all’altro e di (con)fondere un luogo con l’altro
E poi di fronte alla tastiera questa presa di coscienza superiore si è affievolita mortificata dalla pochezza delle parole e del mio narrare
C’è forse un comune denominatore fra questi vini e vignaioli e luoghi che non sia la mia esperienza?
Viaggio lisergico dal Sol di Ezio Cerutti al Labaia di Marco Cordani al Moscato passito di Filippo Gamba al Moscato di Saracena di Luigi Viola allo Zibibbo secco di Nino Barraco sino al Passito di Pantelleria di Salvatore Ferrandes
Kampai

Luigi

domenica 6 gennaio 2013

Mi piacerebbe che voi inclito pubblico



Mi piacerebbe che voi inclito pubblico de Gli amici del bar (potremmo definirci tutti avventori di questo bar di periferia?) mi diceste chi è il sig. X che insieme al Sig. Piacentini è protagonista di questo colloquio tenuto in una grossa cantina sociale del Nord Italia indicando anche in che anni è avvenuto.
Niente in palio, solo l’imperitura soddisfazione di aver vinto.


“-Vede,- mi dice con fierezza (è Piacentini che parla)- in soli quindici, venti minuti al massimo, dal momento che l’uva entra in quel cortile, io ho già il mosto a un chilometro da qui, nelle vasche dove viene pompato dagli enodotti.-
-Come il petrolio, insomma.-
-Non esattamente, Sig. X! L’enodotto è solo per la rapidità: meno stanno le uve all’aria, e meno si contaminano: salvo naturalmente, nella produzione di certi tipi di vini, quando invece devono stare all’aria, ma in determinate condizioni. E questa, guardi, è la prima macchina: dove è pigiata l’uva migliore di tutte le altre, e da cui esce il fiore del fiore, il succo che farà il (vino) più squisito.-
Piacentini mi descrive l’intero ciclo della produzione, e mi enumera uno dopo l’altro tutti i sottoprodotti del vino. E’ un elenco incredibile, che per me ha addirittura qualche cosa di mostruoso: oltre vari tipi di vini, di pregio decrescente, e vari tipi di mosti, che servono, introdotti in speciali apparecchi, ad aumentare la gradazione di vini troppo deboli, ecco le grappe, ecco gli alcool, e poi i combustibili, i detersivi, i fertilizzanti, gli isolatori acustici… Capisco la razionalità economica di tutte queste invenzioni. Tuttavia, non so resistere alla tentazione di una protesta romantica. Do un occhiata intorno, ai macchinari giganteschi e sinistramente inoperosi.
-Va bene, va bene, Piacentini. Ma non le pare che tutto ciò sia sproporzionato? Il vino è così poco, è quasi niente, in paragone con l’enormità di quanto lo circonda e lo trasforma. A me, scusi, sa? A me sembra che, un piccolo sforzo in più, un piccolo passo avanti, e lei, allo stesso modo degli stabilimenti tessili che un bel giorno non hanno più avuto bisogno della lana né del cotone per fabbricare le stoffe, lei non avrà più bisogno dell’uva per fare il vino!-

Ps
Non volevo commentare questo estratto però è innegabile vedere un germe che ha corrotto la nostra società ed è quello della sottovalutazione dei costi economico-sociali dei mezzi messi in opera al fine dell’ottenimento di un prodotto, che non ripaga i consumi di materie prime non rinnovabili utilizzate e tutta la pletora di complessità legate alla distruzione di paesaggi, ecosistemi, alla difficoltà di smaltimento dei rifiuti.
Poter accedere all’energia a basso costo ha creato quella sensazione di onnipotenza delirante che ancora ci permea.

venerdì 4 gennaio 2013

Trebbiano Veruzza 2009, Guccione



Ho cominciato a sentir parlare dei vini dell’azienda dei Guccione a Semplicementeuva. Era la fine del 2010, e finalmente a Milano vedeva la luce un evento dedicato ai vini naturali.
Poi fu la polemica, perché l’evento era sovrapposto a La Terra Trema. Qualcuno urlò allo scandalo, qualcuno si incazzò, qualcuno si disse sorpreso… E poi anche la partecipazione, esplicita, di Porthos non fu presa bene da tutti.
Comunque, col senno di poi, e col rimpianto perché la manifestazione non venne mai ripetuta, posso dire che ricorderò sempre quel fine settimana, le decine di assaggi, ricostruiti a memoria, l’impressione di aver abbracciato un bel po’ del mondo in fermento dei vini appunto “cosiddetti naturali”, ché questa fu l’allocuzione appropriatamente usata dagli organizzatori.
Comunque ricordo nettamente che non visitai il banco d’assaggio Guccione, ma quando andai allo shop che era stato organizzato, correva la voce che i loro vini fossero una vera sorpresa della manifestazione.
Tornai a casa con il Perricone Arturo di Lanzeria. Che trovai irresistibilmente ruffiano.
Poi ogni tanto si parlava di questi vini, anche per la conoscenza diretta che ne aveva Luigi, e poi per vicende tristi sulle quali non voglio soffermarmi.
Passa il tempo e non si può stare dietro a tutto, ma qualche volta le cose ritornano. E così un po’ per sbaglio, in uno dei brevi assaggi nel minuscolo bar à vin di Sarfati (di cui sento già la nostalgia, perché non esiste più) mi sono ritrovato a bere il Catarratto Girgis Extra 2008 e il Trebbiano Veruzza 2009 di questo produttore siciliano.
Quando ho deciso di comprare il primo, era già finito.
Per fortuna col secondo è andata meglio e sono riuscito a berlo di frequente negli ultimi mesi.
Dico subito che per me è un vino straordinario.
Partiamo dal presupposto che sono pazzo per il Trebbiano. Che, come ormai sapete, considero un elemento di pregio che nel processo di vinificazione, la bottiglia non sia considerata un approdo finale dove fermare il più possibile il prodotto, ma essa stessa un tramite, dove il vino possa continuare a vivere per poi continuare a farlo nel bicchiere, in bocca, nei nostri stomaci e infine nelle nostre memorie.
E non v’è dubbio che il Veruzza sia vino vivo, integrale, in costante evoluzione.
L’assaggio è stupefacente, sia all’apertura, ma ancor di più nel suo sviluppo nelle ore e nei giorni successivi.
Ho anche provato a fissarne alcune note.

Lime e rosmarino. Polpa gialla compatta come di mango. Mentuccia ed erbe aromatiche fresche. Accenni sottili di rhum agricolo.
In bocca è trebbianitudine un po' sul versante del profumo. Piccolo residuo carbonico. Si sviluppa ossigenandosi verso i toni più freschi e citrini e il sorso decolla in un turbine di ipersalivazione con la mineralità da effervescente brioschi. Insieme, un bagaglio di spezie che lo rendono anche un po' sontuoso, pur rimanendo di consistenza cristallina e piacevolmente tagliuzzante. Mi entusiasma.
Comunque di beva sin troppo facile, che potrebbe anche farlo sottovalutare. Credo invece che ad aver pazienza, ma di bottiglie in giro ne son rimaste poche, continuerà a evolversi nei prossimi anni un po’ come il Trebbiano più famoso.
Ho cercato di capire qualcosa del terreno sul quale crescono le viti che danno questo nettare, ma non sono arrivato a capire causa e effetto di questo risultato sorprendente nel bicchiere. Ma la zona è peculiare e per quote altimetriche 450-600 m, e per caratteristiche dei terreni. Nella zona ci sono delle marne e mi piace immaginare,  da profano che vive nella città e non capisce una mazza di geologia, che il tipo di mineralità che ho trovato nel gusto del Veruzza abbia corrispondenza nella chimica del terreno. E che dunque vi sia una componente di magnesio bicarbonato di sodio che potrebbe spiegare il mio riferimento ai granulari digestivi.
Va be’ in un'altra vita spero di avere il tempo per queste interessanti seghe mentali.
Per ora mi accontento di bere Veruzza con grande soddisfazione!

mercoledì 2 gennaio 2013

Oude Gueuze Tilquin (2011/2012)




Per festeggiare il 2013 e per accompagnare il salmone avanzato o la culaccia o il lardo di Moncalieri apriamo una Oude Gueuze Tilquin (2011/2012)
Una birra che è l’assemblaggio di annate diverse di Lambic.
Quello che mi ha colpito di questa birra è l’estrema potenza e nitore dei profumi, unita all’acidità potente che non disturba  e non lascia sensazioni di magrezza eccessiva e che in bocca si allarga su sensazioni saline.
Spremuta di limone con fleur de sel.
Molto appagante e glu glu.
Una personalità da vendere e una gestione perfetta delle sue immense durezze al punto che  appare “domestica”.
Kampai

Luigi

Per saperne di più sui Lambic  un pdf di Kuaska