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mercoledì 30 maggio 2012

tunisia nel bicchiere di Gastrofanatico

Qualche mesetto addietro, ho scovato in un'enoteca di Palermo del vino prodotto in Tunisia. Medesima cantina, Domaine Neferis, due bottiglie Selian Réserve (Carignan)  2006 e Cuveé Magnifique (Sirah) 2007, entrambi AOC Sidi Salem.



Neferis è uno Chateau, costruito sulla piana di Grombalia (tra Tunisi e Hammamet) da una ricca famiglia francese agli inizi del '900. Il nome deriva da un'antica città romana chiamata così in omaggio alla Dea Nepheris. Durante il periodo coloniale lo Chateau assume la struttura organizzativa tipica delle cantine francesi. Nel 2000 l'azienda siciliana Calatrasi ne acquisisce la quota di maggioranza, e il suo staff inizia a introdurre nuove tecniche di vinificazione. Ad oggi i vini della cantina sono destinati quasi esclusivamente al consumo interno della Tunisia.

Durante quella breve permanenza a Palermo, ho deciso di preparare con la mamma una pasta col pesto arabo, così ho immediatamente pensato a questo vino. La Sicilia e la Tunisia si sarebbero ritrovate a tavola, nel piatto e nel bicchiere.

Quando ho aperto il Cuveé Magnifique 2007, ho percepito il calore di una terra bruciata dal sole, il Sirah è un vino per me sempre difficile da valutare, è prodotto ormai in tutto il mondo e da ogni parte assume caratteristiche diverse. Ma è certo che il clima della Tunisia conferisce a questo Sirah una marcia in più. I vigneti di Neferis sebbene collocati all'interno ma ad appena 30 chilometri dal mare, consentono una corretta maturazione delle uve mantenendo interessante il profilo aromatico. Infatti successivamente ho iniziato a destinguere in quel rubino carico oltre al pepe nero i profumi di frutta matura ma con la delicatezza di una oasi in mezzo al deserto. In bocca è fresco proprio come l'ombra di un palmeto che ripara da sole cocente. La morbidezza è quella della sabbia dove affondano con dolcezza i piedi scalzi, nel finale è lungo, l'ultimo raggio del Sole che tramonta dietro la duna.



Cuveé Magnifique 2007 AOC Sidi Salem, Domaine Neferis – Sidi Salem Tunisia.
Bottiglia 75 cl.

lunedì 28 maggio 2012

seta carpe riso e anatre



“I primissimi acquacolturisti del mondo, ossia i cinesi che allevavano carpe 4.000 anni fa, iniziarono come policolturisti. I primi produttori di seta cinesi scoprirono che le carpe si congregavano spontaneamente sotto i gelsi dove i bachi da seta filavano i bozzoli. Alla fine, si accorsero che anche le carpe stesse potevano costituire un raccolto. Questo originario rapporto biunivoco si ampliò nel corso del tempo. Si scoprì che le feci della carpa stimolavano la crescita del riso e di altre erbe utili raccolte dai cinesi. Queste erbe servivano anche ad alimentare le anatre che potevano essere macellate per la loro carne. Si sviluppò così una policoltura a quattro sensi in cui seta, pesce, pollame e cereali derivavano tutti dalla fertilità condivisa e riconvertita di un solo stagno.”
Paul Greenberg, “Four Fish, il futuro dell’ultimo cibo selvatico.” Slow Food editore, 2012.

Una profonda irritazione mi coglie nello scoprire che oggi, con dolo e pusillanime esaltazione della potenzialità delle scienze moderne, si sia persa ogni memoria di tecniche efficienti e perfettamente integrate con la natura, il paesaggio e le comunità umane.

venerdì 25 maggio 2012

L’Echalier 2010 Nicolas e Genevieve Bertin-Delatte


L’Echalier 2010 VdF Chenin, Nicolas e Genevieve Bertin-Delatte, Rablay-sur-Layon.
Prodotto dall’unico vigneto aziendale di 1,5 ha in biò.
Fermentazioni con lieviti indigeni, separate in tre cuvèe (parte alta, mediana e bassa del vigneto) e affinamento in legno piccolo usato.
Scrivo di questo vino dopo aver assaggiato lo Chablis di de Moor e
mi pare di leggere, sul filo leggero e increspato della memoria gustativa, delle assonanze.
Concettuali, forse tecniche, più che organolettiche.
Anche in questo vino, sebbene potentemente fresco di un acidità vegetale, si innestano delle maturazioni e delle lievi ossidazioni quasi di caramello.
Questo Chenin è vino di maggiore leggerezza e corpo non imponente con sfumature agrumate (d’altronde lo Chablis è una selezione da un vigneto vecchio e d’altronde parliamo di due cultivar diverse).
Però la cifra stilistica è quella di morbide aspettative, fustigate da acidità, leggero vegetale e mineralità salina.
Grandissimo glu glu con questo vin de France.
Consigliatissimo e dissetante.
Bonne degustation


Luigi


mercoledì 23 maggio 2012

c’è fermento a Torino, CONTESTO ALIMENTARE, trattoria urbana


Ristorante CONTESTO ALIMENTARE, trattoria urbana, via Accademia Albertina 21/E.
Ha aperto da pochi mesi, in una via centrale dal nome e reminescenze blasonate, un piccolo ristorante dal design molto accattivante.
Un misto fra New York e i foodies franco-parigino.


Un bel progetto contemporaneo ma non algido, arredi e boiserie in materiali poveri come l’MDF verniciato naturale, acciaio smaltato bianco, intonaci lievemente rugosi di un bel grigio, tavolone centrale totemico, illuminazione ben calibrata, fantasmi altrettanto bianchi di sedie da trattoria di un tempo su un pavimento di legno.



Molto cool.
Molto accogliente.
Molto bella la definizione di trattoria urbana.
Francesca Sgandurra giovanissima ma con mano già rodata, sfama coloro che varcano la soglia con Tajarin sottilissimi e rossi come il sole al tramonto, plin ripieni di pere e testun, carne cruda al coltello, blinis di zucchine, insalate croccanti con formaggio Comtè.


A mezzogiorno il menù subisce variazioni in base alla disponibilità di mercato e alle intuizione della cuoca.

Francesca Sgandurra

E poi sono anche ironici nel proporre  cibi e vini e questo aiuta a sdrammatizzare e rendere il pasto conviviale e naturale:
“Pesci fuor d’acqua” (acciughe al verde, baccalà mantecato, salmerino di fonte).
“Scampagnata” (polpettine, acciughe e focaccia ripiena).
“L’orto in tavola” (sformatino di spinaci con zabaione salato).
“Dall’aia” (arrotolato di coniglio grigio di Carmagnola alle erbe, cannella e pancetta).
“La rossa” (roast beef di bue).
La proposta di vini bianchi è titolata: “come andare in bianco senza soffrire”.


Grande selezione dei fornitori di materie prime e formaggi e mano gentile ma decisa nel trasformarli.
Menù speciali nei fine settimana nei quali qualche preparazione di pesce si aggiunge al menù .
Sui vini c’è da lavorare ancora, ma di giorno in giorno nuove aggiunte cominciano a ingrossare le fila di una carta tutta da costruire.



Vittorio Rusinà mia moglie ed io abbiamo bevuto un Renosu bianco Igt di Dettori e un Arcese 2010 di Bera.
Insomma siamo andati in bianco senza soffrire, tutt’altro.
Il conto è piuttosto leggero a fronte della qualità proposta sui 15,00/30,00 a testa senza vini.
Torneremo, perché c’è progettualità e passione ed è uno di quei posti che vorresti avere sempre a portata di mano, un ristorante di quartiere con lo sguardo rivolto al quartiere latino o al village.
E noi che siamo alla periferia nebbiosa dell’impero ogni tanto uno squarcio nell’orizzonte e indistinti vocii stranieri ci riempiono il cuore.
Bonne degustation

Luigi










Questo l'abbiamo portato noi

lunedì 21 maggio 2012

Chablis “Rosette” 2008, Alice et Olivier De Moor




Potente e profumato come pochi sciablì.
Apre sulla cotè morbida dello sciardonnè, senza le esasperazioni minerali e dure.
Senza il citrino pizzicante.
Finisce sulla pasticceria e uovo e caramello e agrumi canditi e frutta secca (?).
Decadente per essere un sciablì.
L’acidità comunque impetuosa e una lieve rasposità spalleggia e vivifica le maturazioni e la materia vinosa.
Molto appagante e denso.
Infinita l’evoluzione nel bicchiere.
Alice e Olivier non sono spaventati dalla leggera ossidazione dovuta a pratiche di cantina con bassa solforosa, nessun lievito secco selezionato, nessuna filtrazione e botti di legno.
E ci consegnano uno sciablì d’altri tempi ricco, maturo al limite del caramello e lievemente affumicato.
Molto controcorrente, anche dalle loro parti.
Bevuto al Consorzio in compagnia di Danilo Gatti e Vittorio Rusinà.
Bonne degustation


Luigi


Impressionante anche il loro Aligotè, bevuto al ristorante Rino a Parigi.
E l’Aligotè Plantation 1902 di cui ne parla un amico del bar Niccolò Desenzani.



Dimenticavo! Un vino #coldoppioKi.

venerdì 18 maggio 2012

le cese e il sangio(vese) che non mi aspettavo. collecapretta.

Le cese, Sangiovese Igt Umbria 2009, Collecapretta. 



Mentre lo bevevo, mi sono riproposto di scriverne subito, non tanto per esaltare il mio ego di scribacchino enocaghetto (cit).
Quanto per urlare al mondo la gioia provata nell’annusare, bere questo Sangio(vese) Umbro.
Vero è che noi Sabaudi non siamo avvezzi al Sangio (molti miei coregionari lo vedono come fumo negli occhi).
Altrettanto vero è che questo vino al di là del vitigno di origine (o grazie, chi lo sa?) ha una espressività rara e mi ha veramente schiaffeggiato le papille.
E non solo a me.
Aperto a fine serata, dopo un gran Chianti Classico, un Cannonau di eleganza sopraffina poteva cadere mestamente nel dimenticatoio.
Invece l’impatto olfattivo è stato superlativo, correvano occhiate fra i commensali, stranite, stupite, interdette.
Io ho cambiato bicchiere, non credevo che il profumo intenso, inebriante che usciva dal calice fosse di acciuga.
Acciuga del cantabrico grassa, poco salata, con note dolci.
E voi non potete neanche immaginare quanto piacciano ai piemontesi le acciughe sott’olio con il bagnet vert (salsa di capperi e prezzemolo e aglio).
Ebbene dopo un po’ nel bicchiere si snasava acciughe, cappero e il vegetale del prezzemolo, peperone (la parte bianca interna ci teneva a precisare un commensale), spezie varie.
Poi emergevano dolcezze di mora, mirtillo,menta, liquerizia e una mineralità untuosa che mi ricordava le sabbie micacee.
Corpo vivificato dall’acidità e dal vegetale, intenso e lievemente untuoso (per capire, vedete sopra). Piacevolissimo e vivo.
Buono buono buono.
Vivo nel ricordo, era l’unica bottiglia in mio possesso.
Bonne degù

Luigi


PS
Avevo già parlato da poco del loro Trebbiano Spoletino se volete leggerne.
Devo ringraziare ancora una volta Jacopo Cossater per la segnalazione.




PPS
Io adoro e stimo il sig. Mattioli per quello che ha scritto in etichetta: ”Vittorio Mattioli agricoltore e poi vignaiolo in Terzo la Pieve”.
Agricoltore in primis e poi solo poi vignaiolo.

PPS
Dimenticanza imperdonabile: bevuto chez Tirebouchon
 

mercoledì 16 maggio 2012

parigi in tre mosse di Gastrofanatico


Ogni anno a Parigi decine di nuovi ristoranti aprono i battenti e altrettanti ne chiudono, così orientarsi - se non ci si vuole affidare allo standard delle guide - non è facile. In questo post vi propongo tre posticini, provati col mio amico Marco, che a Parigi ha deciso di viverci, a Belleville, uno dei quartieri più colorati e interessanti del momento, è proprio da qui che parte il nostro percorso.

A due passi dalla graziosa piazza di MenilMontant, la Boulangerie, è tra i ristoranti più dibattuti della jeunesse parigina. Non si discute tanto la qualità dei piatti, schietti e sinceri, quanto il prezzo, per alcuni considerato un po' troppo alto. L'ambiente, ricavato da un'antica panetteria da cui il nome, è  friendly - i francesi mi perdonino l'inglese -, direi da brasserie, sebbene la qualità dei piatti come quella della carta dei vini siano superiori. La casa propone un menu a 34 euro, con tre portate, da scegliere tra entrée, secondi e dolci. Principe della tavola un fantastico, quanto discusso, foie gras, delicato e gustoso appena scottato circondato da una riduzione di aceto balsamico. A seguire un bel pezzo di carne bovina al sangue cotta al forno e poi flambata, servita con delle patate novelle saltate al burro. Infine una vacherin al melone, con pezzetti di meringa che si frantumano docilmente in bocca donando insieme alla crema chantilly una sensazione di paradisiaca freschezza. Prodotti genuini preparati con cura, con un mix di simpatia e cura dei camerieri promuovono sicuramente la Boulangerie.



Poco lontano, dall'altra parte di Belleville, a due passi dall'ospedale Saint-Louis il giovane titolare di una rivendita di vino ha deciso di misurasi con la cucina. Le Verre Volé, letteralmente il bicchiere rubato, è un'enoteca aperta a pranzo e cena. Cucina a vista senza fronzoli. Pochi coperti, non più di una ventina in dieci tavolini con sedie di legno colorate, rosse verdi e blu, oggetti curiosi raccolti nel tempo insieme ai manifesti di concerti e iniziative più disparate incollate sul bancone, regalano al locale una straordinaria aria familiare. Le due pareti principali, a destra e sinistra, sono rivestite da scaffali con bottiglie di vino, dove insieme a prodotti conosciuti si trovano vere e proprie chicche. La carta propone una serie di piatti classici, preparazioni semplici da  materie prime fresche di facile reperibilità, mentre il menù del giorno cambia di stagione in stagione, di giornata in giornata. Qui si è orientato il mio occhio e poi il mio palato, scegliendo una composizione di calamari dei paesi Baschi, spadellati nel loro inchiostro e pomodoro con una leggera polentina accanto. A seguire formaggi caprini. Tutto accompagnato da un blanc Côtes du Rhône del 2007. Iniziativa interessante, da ritornarci.



Dalle parti di Bastille invece ecco il più elegante dei tre, vecchie fotografie, legno e specchi. Le Square Trousseau è un ristorante che propone addirittura una sala privata, fino a diciotto coperti, per occasioni particolari. Pur essendo una di queste, l'incontro con un vecchio e caro amico lo è sempre, abbiamo preferito cenare all'aperto, su uno dei tavolini allestiti sul marciapiede. Iniziamo con un piatto di escargot, succulente con un intincolo di prezzemolo, aglio e burro, e poi una signora tartare di manzo tenerisso tagliata al coltello, forse un po' troppo condita da una salsa tartare leggermente piccante e vinagrette, accompagnata ad un abbondante piatto di french fries sottili e tagliate a mano. Un Nicolas Bourgueil (Valle della Loira) rosso, troppo giovane, del 2009, accompagna le portate. Il servizio è molto cortese, ma assai formale, nulla a che vedere con i ristoranti precedenti e anche il conto è più salato. Quella era la sera decisa per la tartare, buona, ma a Parigi c'è sicuramente di meglio.



La Boulangerie
15 rue del Panoyaux
tel 01 43 58 45 45
Paris


Le Verre Volé
67 rue de Lancry
tel 01 48 03 17 34
Paris


Le Square Trousseau
1 rue Antoine Vollon
tel 01 43 43 06 00
Paris

lunedì 14 maggio 2012

Prezzo sorgente e vendita diretta: un’ennesima riflessione di Niccolò Desenzani

Ho forse, per il momento, esaurito la carica di idee di decostruzione della teoria della degustazione. In realtà ho tanti abbozzi in mente e ultimamente si è affacciato un collegamento con la mia vita precedente di indagatore di teorie della probabilità, che spero sbocci in qualcosa di articolato. Per ora mi godo quella sensazione che iniziai a provare in tarda adolescenza, quella dell’unità dello spirito: quell’impressione che il nostro intelletto si declini in tutte le sue manifestazioni in coerenza con alcune sue caratteristiche primarie e inevitabili.


Jimmie Savage e Bruno de Finetti, Bressanone 1961

Ma quel che mi sta stupendo maggiormente in questo periodo è il riaffacciarsi di un interesse per la politica, in senso ampio, ché la mia ignoranza sull’attualità è abissale, e i grandi temi dell’ecologia e dell’economia.
Questi due temi trovano nel vino una radice da cui svilupparsi e uno specchio, che stupisce per quanto ne possa suggerire una chiave interpretativa.

Il vino è un laboratorio di idee.

Ne sono testimonianza tanti blog, che sconfinano volentieri verso argomenti i più disparati, ma in particolare questo, dove Luigi Fracchia sta gestando un pensiero molto interessante sulla realtà in cui viviamo, e vivremo.

E’ di qualche settimana fa la pubblicazione di una lettera firmata da un po’ di enoteche milanesi, in cui viene richiesto ai produttori di non vendere il vino a un prezzo dissimile da quello che si realizza in enoteca.
La discussione si è accesa parecchio quando Filippo Ronco ha deciso di pubblicare un post in cui con forza diceva che l’iniziativa era quanto meno anacronistica. La disintermediazione è un fatto dell’oggi e resistere in modo reazionario è un errore. Posizione abbastanza simile a quella espressa da Giampiero Nadali sul suo blog, che lucidamente metteva in evidenza che il cliente reale oggi ha a disposizione un ventaglio di modalità di acquisto del prodotto e un tentativo di uno fra tanti attori del mercato, l’enoteca, di alterare unilateralmente le condizioni di libera concorrenza e di formazione del prezzo, arriva tardivo.
Il dibattito si è sviluppato e fra i favorevoli alla richiesta della lettera si sono schierati anche dei produttori, sostenendo, in buona sostanza, che per loro è molto importante che il prezzo del proprio vino sia ben determinato in funzione della principale filiera attraverso la quale arriva al consumatore finale. Creare delle forti asimmetrie di prezzo su filiere differenti non può che indebolire quella di riferimento, creare un’ambiguità sul valore del vino e confondere il cliente finale.
I consumatori appassionati vorrebbero premiato il loro tempo impiegato per recarsi dai produttori con prezzi quantomeno favorevoli rispetto a quelli sotto casa.
Da notare che esistono enotecari con opinioni diametralmente opposte a quelle espresse nella missiva.
Comunque recapitare una lettera in carta bollata al Cavalier Lino Maga di Broni (all’attivo oltre 50 vendemmie e un passato di battaglie) in cui gli si chiede si vendere in bottega, praticamente a casa sua, al prezzo imposto dalle enoteche milanesi ha quanto meno il sapore del cattivo gusto (vedi questo post).


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Non voglio più che tanto addentrarmi nei termini di questa discussione, ma ricordare (anche a me stesso) che intorno al “prezzo sorgente” si giocano, oltre a contrastanti idee sul commercio, questioni più profonde che riguardano il recupero del rapporto con la terra, la valorizzazione del vino, la “fiducia tra produttori e consumatori”, “l’etica della responsabilità e della cooperazione” (il virgolettato è perché cito testualmente le parole di Luigi Veronelli) e non ultimi due aspetti molto attuali: la trasparenza dell’informazione e le vie di uscita dalla crisi.

Ogni volta che si parla di prezzo sorgente c’è qualcuno che se ne esce con cose del tipo “la definizione di PS è problematica”, “dobbiamo capire cosa si intende” etc etc.


Luigi Veronelli (da artestampaweb.it)

Veronelli nella sua proposta programmatica lo definiva in questo modo: ”E’ il costo al quale il produttore vende la sua pasta, il riso, il vino, l’olio, qualsiasi alimento, sia naturale, sia manufatto, con l’indicazione, sulla confezione, del prezzo al quale è disponibile a venderli al consumo diretto.”
Quindi il PS di Veronelli era sia un valore monetario attribuito a un prodotto venduto direttamente al cliente finale sia la scelta di apporlo sulla confezione. Una definizione dunque, la sua, che conteneva già un’azione. Potremmo definirla sovversiva, e il senno di poi ce lo confermerebbe. Perché da quel lontano 2004 qualcuno ha provato a seguire il programma veronelliano, ma infine ha desistito, forzato evidentemente dagli altri attori della filiera.

La definizione del prezzo “come quello a cui è disponibile a vendere al consumo diretto” lascia la libertà al produttore, e quindi potrà di volta in volta coincidere con un prezzo più affettivo che razionale se si tratta di un vignaiolo artigianale con una distribuzione ridotta. Il prezzo che nel suo intimo, con la sua esperienza, con i suoi valori il contadino vuole ricevere per la sua opera di alto artigianato. Un produttore di grandi dimensioni difficilmente potrà esprimere un prezzo in modo così soggettivo e libero come invece può permettersi un artigiano. Semplicemente perché oltre certe dimensioni prevale la logica del bene dell’azienda sopra ogni altra. E se il prodotto nasce in modo industriale, allora il prezzo seguirà delle logiche di mercato. Analogamente se il prodotto nasce già in vista del mercato.
Un’ambiguità di questa definizione è che dà per scontato che il produttore abbia un unico prezzo di vendita. Ciò non è sempre vero ed è qui che il discorso si riallaccia con quello del prezzo da applicare nella vendita diretta ai privati.

Sull’opportunità di renderlo pubblico forse oggi basterebbe che lo sia sul web. Dal momento che il prezzo può variare in funzione di tantissimi parametri, metterlo in etichetta comporterebbe dei problemi pratici non indifferenti (vedi questo “storico” intervento di Gian Paolo Paglia).



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Quindi infine mi concentro su due questioni, che appaiono legate fra loro: se rendere pubblico un prezzo sorgente, inteso come primo prezzo, unico e ben definito, se applicarlo nella vendita diretta in cantina, rendendolo verificabile da chiunque.

La lettera degli enotecari, oltre ad avere un intento di autoprotezione, vorrebbe da una parte consolidare un prezzo di riferimento (quale? Visto che fra le enoteche ci sono spesso grosse differenze), dall’altra nascondere l’informazione e nello stesso tempo negare una dignità alla vendita diretta a prezzo scevro dei costi vivi aggiunti dalla filiera a valle.

Nascondere l’informazione sui prezzi delle cose è vantaggioso solo per chi quei prezzi li conosce.

Una delle argomentazioni contro l’introduzione del prezzo sorgente alla Veronelli, che all’inizio sembra quasi convincente, ma poi se uno ci pensa su si accorge che è terrificante, è quella che poi il cliente finale confrontando il prezzo pagato con quello sorgente giudicherebbe l’onestà del venditore sulla base di opinioni soggettive, cioè se per lui il ricarico è troppo esoso. E allora ognuno avrebbe il proprio criterio e quindi verrebbe ingiustamente messa in discussione la reputazione del venditore. Analogamente farebbe arrabbiare tutti gli intermediari i cui ricarichi trasparirebbero.
Questo è un ragionamento che fa comodo solo a chi vuole arricchirsi indebitamente, perché a ben vedere se fossimo abituati a una trasparenza dei prezzi, avremmo la capacità di capire il peso e l’importanza dei vari passaggi della filiera e daremmo per scontato che imballare e sballare, trasportare, cercare, scegliere, promuovere, raccontare, immagazzinare, mescere, vendere un vino sono tutte cose che hanno un costo.

Se fossimo abituati alla trasparenza, volendo fare un’analogia con l’attualità, saremmo in grado di capire che far politica ha dei costi che in realtà sono pubblici e si possono consultare. E non ridurremmo la questione del finanziamento a un confronto ideologico ignorante i costi che ci sono, ci devono essere e in altri paesi, dove la classe politica gode di buona reputazione, sono anche molto più elevati dei nostri. Vedi questo post di Sergio Boccadutri.

Una filiera del vino senza vendita diretta a prezzo sorgente dovrebbe rafforzare le filiere indirette, ma in realtà non aiuta a rendere apprezzabile il lavoro di intermediazione e indebolisce il legame fra produttore e consumatore.

Si può obiettare che il produttore attraverso il web ha la possibilità comunque di mantenere un rapporto diretto con il consumatore. Questo è innegabile. Tuttavia poter comprare, quando ne abbiamo il tempo e la possibilità, direttamente all’origine, a un prezzo sorgente vantaggioso rispetto alle altre filiere, è un’opportunità da un lato per rafforzare la fiducia e il legame con i produttori, per conoscere la nostra terra, le persone che se ne prendono cura, e tornare a un senso più originario del commercio, dall’altro per dare consapevolmente il nostro apprezzamento (economico e non) a chi, col suo spirito imprenditoriale, la sua esperienza e la sua capacità di selezionare, permette che i buoni prodotti siano reperibili a un palmo di naso.

In generale quindi il commercio diretto è uno strumento per un’economia più partecipata.

E se riscoprissimo che in ultima istanza è dalla terra che traiamo il nostro sostentamento ricominceremmo a capire che è da un rapporto diretto con essa che forse si deve ripartire per superare questa crisi che ci affligge.

Niccolò


Giuseppe Ratti (da italiastraordinaria.it)

venerdì 11 maggio 2012

prosecco gatti 2010

Azienda Agricola Gatti, Prosecco 2010.



Il prosecco nel 99% dei casi deve il suo frizzo tanto gradito ai consumatori, alla tecnologia enologica ed alimentare.
Vasche inox termocondizionate, impianti isobarici, nutrici, impianti frigoriferi, filtri brillantanti.
Lieviti secchi e filtrazioni e chiarifiche.
Tutti impianti costosi e energivori.
Tutte tecniche di cantina piuttosto invasive.
Faccio fatica a far rientrare vini così nella categoria dei vini di territorio.
Problema mio, di sicuro, lo sapete sono stolido e reazionario.



Ebbene questo Prosecco, invece, è figlio della terra e dei vignaioli che lo producono.
E’, a suo modo etico, perché viene prodotto in vasche di cemento senza controllo delle temperature, senza inoculo di lieviti secchi selezionati, non viene chiarificato né filtrato e la rifermentazione avviene in bottiglia.
I lieviti della seconda fermentazioni sono lasciati dentro, “sur lie” appunto.
Sorrido pensando all’energia incontenibile e iconoclasta di Carolina Gatti e i suoi, adorabili, comportamenti anticonvenzionali e il suo esercizio quotidiano della coerenza e della sincerità.
Ama il suo lavoro, i suoi vini e la sua terra.
E nei vini si sente questa forza.

Carolina Gatti

Ben fresco di frigo versatelo in calici ampi, quelli da rossi van bene.
Oppure proverei a scaraffare piano piano per non sgasarlo.
E poi un leggero sulfureo diventerà un gradevole fumè.
Arrembanti profumi vegeto-linfatici e citrici diventeranno sempre più pompelmosi e avvolgenti.
Bucce di agrumi amari su un corpo fresco e dritto.
Salgemma in bocca e limone.
Secchissimo senza residui zuccherini.
Buono, molto lungo, saporito, da sgargarozzarsi in compagnia.
Ottimo anche il 2008 da Magnum, segno che c'è materia anche per gestirne l'evoluzione.

Molto buono anche il Raboso 2009, vino da lardo come dice Carolina, secchissimo, profumato, di un’acidità graffiante e ammaliante.

Incredibile il blend di Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon, campione da vasca servito da una bottiglia di plastica, il contrasto fra il trash del contenitore, l’incontenibile parlata di Carolina e la bontà celestiale del vino mi ha condotto ad un passo dalla sindrome di Stendhall.
Vittorio Rusinà ed io soffochiamo di risate al solo ripensarci.
Bonne degustation

Luigi



mercoledì 9 maggio 2012

tre bicchieri spagnoli di Gastrofanatico

Quante volte ci è capitato di bere spagnolo? E quante volte ci verrebbe in mente di ordinare al ristorante un rioja o un priorat? Poche, forse addirittura nessuna, così, tra ignoranza e diffidenza, le produzioni vinicole iberiche in Italia sono ancora sconosciute ai più. Insieme alle zone davvero storiche - tra tutte la Rioja dove le prime coltivazioni della vite risalgono al tempo delle colonie fenice - nella seconda metà del novecento molte altre regioni sono state interessate da importanti investimenti, con la riqualificazione di vecchi vigneti e una ricerca sempre maggiore di qualità. Soprattuto in Catalogna dove, dal Priorat, al Pla de Bages, al Costers del Segre, sono decine le cantine che hanno raggiunto livelli di eccellenza che stupiscono. Tutti i vini di qualità spagnoli hanno la qualificazione D.O., soltanto quelli della Rioja e del Priorat possono fregiarsi della DOCa (Calificada).



VIÑA TONDONIA TINTO RESERVA 2001
Crianza è la premessa per capire i vini della Rioja. Crianza è l’affinamento in botte, e dal tempo dell’affinamento dipende anche la denominazione dei vini: Rioja sono i vini che rimangono in botte di rovere per meno di 12 mesi. Crianza quelli che stanno almeno un anno in rovere su due di invecchiamento. Rioja Reserva tre anni di invecchiamento di cui uno in rovere, infine Rioja Gran Reserva almeno due anni di rovere e minino tre di bottiglia.
Il Vina Tondonia è una cantina storica, forse la più importante della regione. Produce vini da oltre 130 anni nella migliore zona delle tre zone della Rioja, quella “alta”. Di questo vino (per il 75% da uve Tempranillo, poi 15% di Garnacha e 10% di Carignano) l’ultima vendemmia disponibile è la 2001, annata eccellente per il "Consejo Regulador de Rioja". Dopo un’estate secca la raccolta è iniziata il 15 ottobre per terminare entro il mese. Il vino è rimasto in botte per 6 anni, con due travasi l’anno. Poi, non filtrato, è rimasto diversi mesi a riposo in bottiglia.
Consiglio di aprirlo almeno un’ora prima del servizio, ha un colore rubino con una leggera unghia granata. Al naso è fine, con aromi di vaniglia e pane tostato. Morbido e rotondo in bocca con una buona persistenza. Non è un vino di cui ci si innamora al primo bicchiere, e forse neanche al secondo o al terzo, per il carattere insolito che gli conferisce quel lungo invecchiamento. Rappresenta comunque l’essenza della Rioja di qualità, in un ottimo rapporto qualità/prezzo.




VILOSELL 2008
El Vilosell è un piccolo comune di appena 197 abitanti, nel cuore della Catalogna ad una trentina di chilometri dal mare, nel Costers del Segre (appena più a nord del Priorat, una delle zone più nobili dell’attuale produzione vinicola iberica). Qui Tomàs Cusiné ha ampliato negli ultimi anni con diverse acquisizioni la sua azienda fino a raggiungere ben 29 ettari vitati, la varietà è tanta, cabernet sauvignon, merlot, syrah, cabernet franc, garnacha, carignano, chardonnay, sauvignon blanc… insomma ce n’è per riempire le quasi 200mila bottiglie di produzione annua. Vilosell è un vino curioso, prima di tutto perché è un superblend. Sei vitigni assemblati con percentuali che cambiano da vendemmia a vendemmia. L’annata 2008 è un bell’assemblaggio di tempranillo (43%), syrah (18%), cabernet sauvignon (16%), merlot (14%), carignano (6%) e garnacha (3%). Raccolte a mano, affinamento per 9 mesi in barriques francesi. Al naso è ampio e se coi riconoscimenti olfattivi ci sapete fare (come la mia fidanzata che ha un naso eccezionale, da farmi mangiar polvere) troverete insistenti frutti di bosco, ciliegia e poi giù con le spezie, dal pepe ai chiodi di garofano, tabacco. E quelle note tostate che tradiscono il passaggio in barrique. In bocca è intenso, tannini gentili e decisamente persistente. Prezzo super, appena 10 euro la bottiglia.




NUAT 2008
Picapoll? Cos'è il picapoll? Non lo conoscevo fino a quando non mi sono imbattuto in questo bianco prodotto da Abadal, nella Pla de Bages (D.O.) ad un tiro di schioppo da Barcellona.
La cantina festeggerà nel 2012 i trent’anni di attività, in una zona dove la vigna e il bosco convivono in un microclima speciale a pochi chilometri dalla costa. Il picapoll è una varietà che nasce nel diciassettesimo secolo nella Languedoc, ma è nel Pla de Bages in Catalogna a esprimersi meglio, tanto da essere considerato autoctono. La macerazione con le bucce conferisce un bellissimo color oro, ma il segreto è tutto nella breve maturazione di una parte variabile (solitamente attorno al 10%) in botti praticamente non tostate, che conferisce al vino insieme ai tannini ellagici, complessità e struttura. Dei tre è il vino che ha convinto di più, per freschezza, sapidità, e la varietà degli aromi. Dagli agrumi, alla frutta gialla, erbe aromatiche e sentori di mela. E’ un vino che si presta senza dubbio ad un affinamento in bottiglia.

Gastrofanatico

Tinto Reserva 2001
Vina Tondonia
bottiglia 75 cl €18


Vilosell 2008
Tomàs Cusiné
bottiglia 75 cl €10


Nuat 2008
Abadal
bottiglia 75 cl €25

lunedì 7 maggio 2012

tenuta migliavacca biodinamici dal 1964, monferrato casalese

Barbera del Monferrato Superiore 2007, Tenuta Migliavacca di Francesco Brezza, S.Giorgio Monferrato(AL).



Da uve prodotte in biodinamica in una cascina a ciclo chiuso.
Allevamento, pascolo, cereali.
Compostaggio, preparati 500 e 501, zolfo minerale e rame quando non se può fare a meno e tutto ciò dal mille novecento sessanta quattro.
Non da ieri.
Il territorio è il Monferrato Casalese, una zona che con la parte nord dell’astigiano, alla sinistra del Tanaro, ha subito una fortissima decrescita agricola e spopolamento.
Il paesaggio è mutato così tanto che è impossibile negare o sottovalutare la profonda crisi di questi luoghi.
Perché il paesaggio è sempre specchio delle dinamiche socio-economiche.
Tutto ciò malgrado l’innegabile vocazione vinicola, cerealicola (si producono ottimi grani teneri da campi collinari), all’allevamento e casearia.



Ho aperto una Barbera del Monferrato Superiore del duemila e sette, anno caldo e un po’ di calore si ritrova nei profumi di frutta esotica e banana matura, intensi e molto caratteristici.
Acidità imponente, come nelle barbera d’antan, un rasoio che sgrassa i ravioli monferrini al sugo d’arrosto.
Scava in profondità con lieve cattiveria e accenni officinali e minerali.
Un archetipo della Barbera del nord Monferrato.
Scontrosità su corpo apparentemente dolce e ammiccante e fendenti acidi impietosi.
Vino territorio, vino gastronomico non saprei dire se l’uno esiste in funzione dell’altro o viceversa.
Succosissima e crepitante.
Bonne degustation


Luigi