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sabato 31 marzo 2012

blog social network informazione comunicazione: cultura?



Paul Virilio dice che “Internet è a un tempo la peggiore e la migliore delle cose. Vi può essere il progresso di una comunicazione pressochè senza limiti e il disastro, l’incontro, un giorno o l’altro, dell’iceberg per questo Titanic della navigazione virtuale.” Domande oziose, e un po’ fuori tema rispetto al Blog, da tempo albergano nelle mie sinapsi a riguardo delle potenzialità del web di generare cultura.
Io da sempre mi facevo bello nell’interpretare il flusso delle timeline e dei contenuti dei blog come forma alta, raffinata e brutale di oblio e (dis)informazione per mezzo della iper comunicazione compulsiva.
Una comunicazione così rapida, copiosa, centrifuga, delocalizzata, atemporale che il suo destino ultimo è e sarà la dimenticanza per eccesso di informazioni.
Come uno stream of consciousness da dormiveglia, in cui il risveglio ci coglie ignari delle informazioni che ci sono scivolate sopra (nulla succede, tutto passa).
Siamo addirittura confusi dai fiocchi di senso impigliati a caso nella nostra memoria.
La velocità assurta a modello, a estremo e performante obiettivo.
L’innaturale delocalizzazione e spersonalizzazione delle fonti  provoca la perdita del radicamento, del qui e ora.
Perché in rete non c’è più ne tempo ne luogo.
Il luogo è ovunque (trionfo della atopia), il tempo è un eterno istante (trionfo dell’atemporale) che non diventa mai storia, rimane sempre presente.
Il mondo si è rovesciato come un guanto, il centro è diventato periferia e viceversa.
Connessioni perpetue, visioni con web cam generano un flusso inarrestabile, un giorno innaturale in cui non tramonta mai il sole.
Il voyeurismo è diventata l’anima della comunicazione sul web, ridotta a chiacchiericcio, a sfogo interiore.
Ho poi letto di un altro punto di vista sul web al quale non pensavo, perché esattamente contrario al mio pensiero; ogni bit, ogni nostro intervento, ogni intemperanza, ogni sfogo personale, ogni giudizio pubblicato in rete, a differenza delle liti al bar rimane e le tracce sono recuperabili anche ad anni di distanza e danno uno spaccato della nostra intimità e del nostro carattere che valicano la stretta cerchia della comunità geografica e li proiettano nella sfera del pubblico dominio.
E quindi del pubblico giudizio.
Siamo sicuri di voler rendere tutti partecipi delle nostre patologie comportamentali? A cosa ci porta questa allegra perdita del recondito interiore, gettato in pasto alle masse, che noi non riteniamo tali perché nascoste nella rete atopica e immateriale. Anche noi, come il mondo virtuale che viviamo, abbiamo invertito il centro con la periferia, l’interiorità con l’esteriorità.
Una parziale verifica di questa inversione e dell’uso a scopi intimistico-privati di un mezzo a diffusione globale è la fascinazione del pubblico e il relativo traffico che generano i commenti in rete (sui sn in particolare) su questioni irrilevanti (piccoli torti o soprusi quotidiani di cui ci sentiamo vittime e che riversiamo immediatamente in rete) oppure i post gossip o le provocazioni di blogger perennemente in bilico fra scorrettezza e diffamazione.
L’estrema accessibilità del web e l’afflato democratico che lo pervade, ha portato, con la diffusione dei social network, ad una caduta (se mai c’è stata) della qualità dei contenuti e la sua  libertà ha fatto sì che si possano saccheggiare i contenuti, i pensieri, finanche le conversazioni degli altri senza che lo si percepisca come un comportamento di rapina.
Comunicazione senza limiti in una rete senza limiti, ne geografici, ne temporali, ne sociali ha generato un mondo di individui indistinti, atomizzati, spersonalizzati,  incapaci di relazioni mediate dall’affettività e dal rispetto verso gli altri.
“L’immaturità è la condizione più efficace per definire i nostri contemporanei (…) Uno stato immaturo suscitato e liberato in noi da una cultura divenuta inorganica.” W.Gombrowicz.
Interessante anche questo post di M.Serra.
C’è troppa velocità, troppo spazio, troppo narcisismo, troppo poco tempo per ragionare, quindi, per fare cultura?


giovedì 29 marzo 2012

despina malvasia emilia igp quarticello

Despina, Malvasia Emilia Igp, Quarticello, Montecchio (RE).

Certe volte abbandono per molti mesi, sullo scaffale, dei vini che mi sono piaciuti molto alle fiere.
Però.
Ho paura.
Di aver sbagliato.
Di averli sopravvalutati.
Di essermi sopravvalutato, come degustatore seriale (serial drinker).
Il coraggio del secondo assaggio.
Latita.
Il vino langue abbandonato.
Poi un giorno l’azzardo o l’esaltazione sconsiderata (del tutto inappropriata) del mio ego mi porta ad afferrare il collo della bottiglia e a riesumarla dal suo loculo.
E soprattutto a berla.
Con leggera fibrillazione ventricolare e sudorazione fredda.
Ma ormai è fatta.
Questa volta ho vinto (vinto facile perché io adoro la Malvasia secca e frizzante).
Però una componente di indeterminatezza c’era.
Io non amo sempre le rifermentazioni sedimentose dei vini mangia e bevi.
Anzi.
Se posso me ne tengo alla larga.
Un limite mio, ovviamente.
Trovo che esprimano spesso effluvi non proprio esaltanti.
E la ricerca del torbido, per me, non deve essere una crociata alla quale non ci può esimere per non essere considerati reazionari.
Ho già le idee torbide, per cui certe volte un po’ di limpidezza mi aiuta, tanto più che l’alcool mi riporta alla mia naturale opacità intellettiva.
Questa Malvasia mi è piaciuta tanto.
Potente e scontrosa.
Officinale.
Amarognola ma indulgente, saporita (non so come spiegare questa sensione di amaro masticabile e piacevole, come certi radicchi o cardi).
Sapidità di salina.
Profumi di salvia.
Da berne a secchiate.
Alcool moderato e godimento assicurato.
Purtroppo ne avevo comprata una sola.
Bonne degustation



Luigi





mercoledì 28 marzo 2012

martedì 27 marzo 2012

la leggerezza sostenibile Les Etapes 2010 d.ne du Perron


Ultimamente ho letto che malgrado il periodo confuso nel quale viviamo è ormai passata la concezione enologica filo-Borgognona.
Vini più magri, affilati, meno concentrati, meno colorati, più eleganti che muscolosi.
In realtà il redattore non espandeva all’eleganza dei vini (italiani) il nuovo concetto di levità, anzi sosteneva che si usi come canone qualitativo una certa rusticità.
Un’alternanza, leggero pesante, che il recensore definiva come un evento modaiolo, figlio degli eccessi precedenti e destinato come tale a vedersi superato a breve dall’avvento, per noia, di una nuova moda o al ritorno delle concentrazioni.
Io non sono certo che:

1) sia finita la moda dei vini concentrati, tuttalpiù bisognerebbe chiarire cosa si intende per concentrazione.
2) i vini più giocati sulla leggerezza e bevibilità siano una moda transitoria.

Direi che c’è spazio per tutti e ci sono campi di piacevolezza ritagliati dalla gastronomia per gli uni e per gli altri.
Mi annoiano, ormai, le esasperazioni, mi si perdoni lo sconfinamento tecnico, di certe vinificazioni e affinamenti che annullano un po’ l’espressione del territorio.
Vini più esili e senza trucco, nella loro fragilità strutturale, sono più bevibili.
Da sempre si fanno e qualcuno ha, imperterrito, continuato a farli anche in queste epoche di eccessi, accompagnando le uve sino a farsi vino, senza l’ossessione del risultato predefinito.
E’ il puntare ad un canone e fare di tutto per raggiungerlo, magari tradendo territorio e vitigno e tradizioni, l’errore degli anni passati.
Ricercare profumi, descrivibili e intellegibili, come dei profumieri o sapori, anch’essi riconoscibili, come tecnici alimentari, pensare con ostinazione e falso scientismo che si possa progettare un vino come fosse un processo industriale è la grande arroganza contemporanea, un delirio di onnipotenza.

Questo pensavo durante la scrittura del post su un Pinot Noir francese “fuori zona” della regione del Rhone-Alpes, vicino al Rodano, sui primi contrafforti prealpini, un vino montano.
Almeno questa “nuova moda” della leggerezza ci permette di scoprire altri territori altrimenti marginalizzati.
Les Etapes 2010, la vigne du Perron, Villebois, Francia.
L’innesco ai miei ragionamenti me lo ha dato un vino così, magro e affilato, senza pretese (ma forse l’umiltà e l’understatement sono condizioni da rivalutare in un mondo strillato, mediatico e polemico) che scivola veloce in bocca e accompagna le chiacchiere e il cibo.
Che non fa parlare di sé ma ci fa parlare e interagire con il commensale e l’oste insolente.
Pinot consigliato dall’oste più insolente del nord ovest: Pietro Vergano del Consorzio.
Ho letto che il domaine du Perron produce anche una Mondeuse (vitigno della Savoia) in purezza con 11° 11,5° vol alcool io non sto più nella pelle dalla curiosità di assaggiarlo e voi?
Bonne degustation



Luigi

domenica 25 marzo 2012

sane polemiche?



Ogni genere di polemica è sin dall’inizio estranea all’atteggiamento del pensiero. Il ruolo del polemista non è quello del pensiero. Giacchè il pensiero pensa solo quando segue ciò che parla per una cosa. Ogni parola di attacco non ha qui altro senso che quello di proteggere la cosa.
Martin Heidegger

venerdì 23 marzo 2012

le rouchefer 2010 appellation anjou controlée mosse

Le Rouchefer 2010, Appelation Anjou Controlée, Domaine Mosse, Saint Lambert-du-Lattay.


Voilà un altro vin de Loire.
Chenin naturalmente.
Giovane naturalmente.
D’altronde i vini vanno conservati…nella memoria (cit).
Ma già bevibilissimo.
Profumatissimo.
Asciutto e scattante.
Leggero raschio acidulo vegetale.
Pizzicante.
Salato.
Chiama un bicchiere dietro l’altro.
Per cercare nuove sensazioni.
Che lui diligente ti dà.
Glu glu
Va giù
E la bottiglia finisce.
Bonne degustation

Luigi

mercoledì 21 marzo 2012

dei vini corretti: e dei vini magnifici di N. Desenzani

Per essere perfetta le mancava solo un difetto (Karl Kraus)

In questi giorni, come in altri del passato recente, ricorre il tema dei difetti nel vino. A parte uno zoccolo reazionario ancora convinto che i vini naturali siano tendenzialmente puzzolenti e la cosa sia di per sé intollerabile, ormai anche molti dei palati più conservatori si sono arresi di fronte all’evidenza che esistono, e sono la maggior parte, vini cosiddetti naturali puliti e senza difetti organolettici rilevabili come tali. Per inciso, ci si dimentica praticamente sempre di citare esempi celebri come il Domaine de la Romanée-Conti che si può dire faccia vini naturali da almeno vent’anni, essendosi allora ispirato a produttori che iniziarono alla fine degli anni ‘70. Quindi ogni tanto mi chiedo cosa ci sia ancora da polemizzare. Esempi così tagliano la testa al toro.


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Ma non è in questa chiave che voglio affrontare la questione dei difetti, piuttosto in una puramente estetica. E cioè se sia da auspicare la perfezione tecnica a tutti i costi, o se invece talvolta i difetti, in vini che sono grandi per impostazione, non contribuiscano positivamente a caratterizzarli ancor più e a creare quell’effetto di imperfezione che affascina.
Io propendo per la seconda visione.
La cosa interessante è che ragionando di queste lievi questioni, mi è tornato in mente un testo classico, che periodicamente mi si ripropone come modello. Sto parlando del saggio di critica letteraria “Del Sublime” di autore alessandrino anonimo. Alla fine della classicità, ma prima del cristianesimo si colloca la genesi di questo libello, che ha la modestia di spiegare quali siano le principali fonti del sublime in letteratura, corredando il tutto con esempi, citati talvolta anche a memoria, ma con una pertinenza e una “ficcanza” che ogni volta mi lasciano attonito.
Ero fiducioso che avrei trovato qualche spunto interessante in quel libro e non solo ne ho avuto conferma, ma c’è ancor più di quanto mi aspettassi.
In due capitoli dell’opera si trattano i difetti.
Nel capitolo XXXIII, l’autore si interroga se “sia da preferirsi una grandezza che cede in qualche punto o invece una mediocrità corretta, sana in ogni sua parte e senza cadute”. Più avanti afferma “nelle opere grandi bisogna che ci sia spazio anche alla negligenza”. Visione che si esemplifica in questo passo di Plinio che parla di un oratore dallo stile impeccabile, ma esile e disadorno: Nihil peccat, nisi quod nihil peccat: egli non ha altro peccato che quello di non peccare mai.
Nel capitolo XXXVI intitolato “Del dire corretto e senza errori: e del dire magnifico”, introduce una teoria, un po’ paradossale, ma a mio parere molto evocativa. Egli dice che a differenza di arti come la scultura, in cui la bravura dell’artista è da valutare su un piano meramente tecnico, e cioè in funzione della sua capacità di riprodurre la natura, per quanto riguarda la parola – il logos – invece esso è espressione naturale dell’uomo, una qualità fisica. E quindi la poesia va giudicata come prodotto di natura e il criterio valutativo è costituito dalla “grandezza”. E questa proviene dalla grandezza d’animo.
Ora parafrasando queste parole e accettando che il vignaiolo sia il poeta e il suo vino la poesia, intanto si può per una volta smettere di dire che il vino non è un prodotto naturale perché non si crea spontaneamente, ma includere nella naturalità “l’umano far il vino” e poi giudicare il tutto con il metro della grandezza, dell’animo del vignaiolo e del suo vino. E se in questo intento il vino verrà con qualche difetto, questo non gli precluderà d’esser vino sublime.
Non è un caso che la teoria espressa dall’Anonimo assumesse allora dei connotati polemici, contro una critica letteraria dei V e IV secolo a.c. che imponeva l’aderenza a canoni stilistici rigidissimi, ma pure a canoni contenutistici.
Mutatis mutandis potremmo pensare ad alcune scuole di critica enologica che si sono affermate negli ultimi anni e che, forse, oggi sono palesemente superate.
Mi piace finire con le parole del nostro Anonimo:

“ma poi ciascuno si tenga l’opinione che gli va a genio”


Niccolò Desenzani

Per il testo e l’apparato critico ho consultato l’edizione: Pseudo-Longino, Del Sublime, BUR 1991.




lunedì 19 marzo 2012

mulino sobrino la morra

Guardiani della terra


RenzoSobrino.
Visita effettuata con Roberto Mastropasqua.
A La Morra (CN), paese conosciuto per i Barolo, c’è un mulino ottocentesco in piena e fragorosa attività.
Sembra di attraversare una porta spazio temporale.
Fuori l’incontenibile e rutilante mondo in perenne e asfissiante cambiamento.
Dentro solai, scale, macchinari in legno, cinghie di trasmissione in cuoio, manicotti in cotone.
Come in un racconto di Dickens.
 Una macina in pietra dei pirenei ruota incessantemente e cinghie e pulegge e tramogge la seguono in una danza protoindustriale.


Renzo e suo fratello regolano, controllano, sorvegliano l’andamento da automa settecentesco del loro mulino verticale.
Anche lo sviluppo verticale delle macchine è segno dei tempi andati, di una visione della meccanizzazione quasi mistica di innalzamento, trasformazione e purificazione.
Affiancano alla macina in pietra un impianto a otto laminatoi degli anni cinquanta dell’ultimo secolo del millennio precedente.
Anche questo con il fascino delle attrezzature museali.


Però tutto funziona, la pietra sminuzza e sfarina in una sola passata e il laminatoio in otto e produce le farine bianche 1, 0 e 00.
Al di là dell’indubbio atto di fede che Renzo Sobrino ha fatto nel continuare a lavorare con impianti più lenti e spazi limitati c’è stata l’intuizione di poter ottenere un prodotto di qualità, facendo squadra con i contadini.
Sobrino ha ripetuto come un mantra, durante la visita, che la sua farina è buona non grazie a lui (in realtà i suoi impianti stressano meno il prodotto grazie a lavorazioni più lente e meno invasive e poi lava e macina ogni volta poche quantità di cereali) ma grazie ai suoi conferitori.
Negli anni li ha scelti, ha chiesto loro lo sforzo di certificarsi biologici (per indubbie esigenze di trasparenza commerciale e scelta strategica), hanno scelto insieme le varietà da coltivare, aggiungendo ogni tanto qualche vecchia cultivar come il Mais ottofile, il Mais Dente di Cavallo, il Farro monococco, il Senatore Cappelli, il Gamba di Ferro, il Rosso Gentile.


Sobrino ha invogliato dei contadini a intraprendere la strada della qualità (talvolta ha ridato loro speranza nelproseguire l’attività di cerealicoltori riconoscendo loro prezzi molto più alti delle quotazioni standard delle granaglie) cedendo i semi per le prove in campo.
Ultimamente ha aderito al progetto “Pan ed Langa” promosso da Enrico Giacosa e ha cominciato a far coltivare e macinare due varietà di grano tenero pressochè scomparse ma che venivano usate per la produzione del pane: il “Gamba di Ferro” e il “Rosso Gentile” a cui stanno  aggiungendo altre due varietà il “Verna” e il “Frassineto”.


Lo ha fatto adescando gli agricoltori sia cedendo semi sia sospendendo momentaneamente (solo per le varietà coinvolte nel progetto) la rigida legge del certificato biologico obbligatorio.
Con questo progetto che restringe la produzione dei grani al territorio di Langa si è chiusa la filiera completa composta da agricoltore, mugnaio, panificatore.
Questi grani hanno un profilo organolettico molto interessante e profumi intensi ma vista la loro bassa concentrazione di glutine richiedono tecniche di panificazione più lunghe (lievitazione acida con la pasta madre) e laboriose, per ulteriori approfondimenti leggete il post di Roberto Mastropasqua.
L’indubbia qualità e bontà delle farine è quasi messa in secondo piano dalla funzione di ricostruzione della filiera produttiva e il recupero di saperi (più che sapori) agronomici persi negli ultimi decenni, travolti dal fenomeno di dumping sul prezzo dei cereali che rendono antieconomica la produzione collinare.
Eppure tutte le colline piemontesi dal Monferrato alle Langhe hanno sempre affiancato alla viticoltura la cerealicoltura con risultati organolettici di alto profilo.


L’invasione monocolturale della vite, tanto osannata dagli appassionati di vino, è un falso storico, una forzatura dello schema produttivo tipico delle colline piemontesi e un attentato alla stabilità geologica dei crinali.
Negli anni, grazie ad una maggiore remunerazione del vino, i seminativi, i prati, i noccioleti, i boschi,  hanno ceduto posto ai vigneti e in luoghi meno famosi al bosco e al gerbido.
Oppure si sono spianate intere colline con l’uso intensivo e continuativo di trattori e tecniche agronomiche, mirate alla produzione quantitativa, molto invasive e pesanti.
Un processo che ha portato tanti agricoltori all’abbandono della terra o a una perdita del know how.
E’ affascinante il progetto di Renzo Sobrino che ha saputo interpretare la sua funzione di guardiano della terra in veste contemporanea senza cadere in posizioni di puro antagonismo e di isolamento ma ha costruito, negli anni, con pazienza la filiera, il prodotto e la sua commercializzazione per non finire dalla nicchia in un loculo.








domenica 18 marzo 2012

il cielo sopra parigi


ABITARE

Se sapessi che cosa è importante scriverei un’opera. Un romanzo per esempio.
Per  raccontare una storia bisogna saper distinguere i significati da ciò che è privo di significato. E’ questa distribuzione che sto cercando. Ordinare i tempi, governare gli eventi. Se sapessi fare queste cose mi troverei improvvisamente in possesso di una voce, e la riconoscerei fra tutte le altre.
Supponiamo che ora io mi metta a urlare: i vetri non si infrangerebbero, la porta rimarrebbe discretamente, dolcemente chiusa, e la luce resterebbe accesa. Io stesso resterei compostamente seduto al tavolo, a sfregarmi i piedi con le calze l’uno contro l’altro, gli occhi aperti a guardare i contorni della stanza e delle cose.
Se sapessi che cosa davvero è importante, allora non credo che scriverei.
Beppe Sebaste
Cafè Suisse e altri luoghi di sosta.

venerdì 16 marzo 2012

parigi val bene una grenache... e una mourvedre


Languedoc.
Peyroulières 2009, Vin de Pays des Monts de la Grage.
Les Grèzes 2010, Vin de Pays des Monts de la Grage.
DomaineBordes, Saint Chinian.
A parte lo Syrah che conosciamo è ora di mandare a memoria questi vitigni (anche solo per fare i fighetti a restaurant):
Grenache, Cinsault, Mourvedre e Grenache gris.
Parto dall’ultima, la Grenache gris una bacca bianca.
Un po’ abbandonata in Spagna, in questi ultimi anni nel sud ovest della Francia sta facendo scintille.
Questa Les Grèzes 2010 era
Opalescente di giallo fosforo.
Profumata di garrigues assolata.
Salina.
Raspo vegetale e freschezza acida residuale.
Lavanda.
Rusticamente affascinante.
Glu glu è finita giù.

Poi la Mourvedre, di ostica pronuncia ma di facile bevuta.
Il Peyroulières 2009 è inchiostro nero di china.
Zaffate di mirtilli e un po’ di fragoline.
Un po' di erbe della garrigue.
Seziona il palato fra dolcezza e rugosità acide, vegetali, speziali, minerali.
Volatile alla francese che innalza profumi sino alle narici.
E sgrassa il palato impegnato a deglutire un agnello dei Pirenei.
Glu glu la Mourvedre ha seguito la Grenache nella peristalsi.
Cercateli ne vale la pena.
Bonne degustation.

Luigi


Vini bevuti su consiglio di Francesca Tradardi anima della sala e della cantina di Rino


giovedì 15 marzo 2012

il cielo sopra parigi



Uomini stanno fuggendo in una vegetazione urbana di semafori, canne piegate, binari, ferraglia, carrucole, pozzi. Schiacciano gli sterpi cresciuti fra le pietre, superano relitti di automobili bruciate, si lasciano dietro scheletri, teschi, riviste pornografiche. Qualcuno li insegue.
Hanno caschi da pugili, stivali fangosi, giubbotti dai ganci che svolazzano. Certi sono feriti, perdono sangue. Alcuni barcollano. Il ritmo della corsa è frenetico, ma lucido, controllato: non si fanno tradire dall’ansia, cercano piuttosto di governarla. Forse sperano di poterne uscire, per l’ennesima volta.

Uomini pericolosi
Eraldo Affinati
Mi 1998



mercoledì 14 marzo 2012

distillato col ki Capovilla




Mele tabacco raccolta 2008 di Capovilla
Quarantasei volumi di profumi
Foglie di tabacco
Mele
Che entrano nelle sinapsi
La bocca brucia di gioia
Estinto il fuoco
Ancora profumi
Sapore
Inebriante
E bevi
E ribevi
Sciamanico
Alchemico
Trascina la mente verso livelli di coscienza
Sopiti

martedì 13 marzo 2012

il cielo sopra parigi



Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti:
Il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi…
Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.
I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà…

Specie di spazi.
G.Perec
Torino, 1989

lunedì 12 marzo 2012

figli di una bolla minore



Crémant du Jura Brut, Domaine Labet, Rotalier.
Se volete bere uno spumante metodo classico in Francia e non disponete più di 13/14 euro (anche meno).
Allora lo Jura vi viene in aiuto (sui blog francesi parlano di 6 dico 6 euro in cantina).
E vi consegna dei Crémant du Jura di insospettabile qualità, saporiti e avvincenti.
Questo del Domaine Labet di Rotalier.
E’un taglio di Pinot noir e Chardonnay.
Agli Chardonnay dello Jura in genere sia in versione ouillès sia in versione vins de voile bisognerebbe dedicare tempo e calici e palato.
Ouillès sono i vini affinati in riduzione.
I vins de voile sono quelli ossidati sotto il velo di flor (non proprio di moda però...).
Tutti rigorosamente in pièce (barrique Borgognona) usatissime non meno di 4 sino a 12 anni e più.
Comunque, torniamo al nostro Crémant.
Buonissimo, bolle fini e sentori di frutta secca.
Come se l’ossidazione e i suoi profumi fossero impliciti e connaturati con il terroir dello Jura.
Il Pinot è più domestico di quelli della Champagne.
Rotondo e delicato.
Mineralità salmastra.
Lo Chardonnay è più antico, più figlio della vecchia borgogna che non disdegnava derive ossidative e morbide(al terroir non si comanda).
Ma l’acidità tiene alto il liquido e pizzica il palato insieme al leggero amarostico.
Bevuta entusiasmante che libera il cuore e non collassa la carta di credito.



Oppure, sempre se squattrinati, si può attingere alla Loira.
Montlouise-sur-Loire, Bubulle 2010, Domaine Lise et Betrand Jousset.
Questo è Chenin Blanc in purezza, metodo ancestrale, non dosato, senza solforosa aggiunta.
In tutta la sua virulenza espressiva.
Non sto a dirvi che anche lo Chenin Blanc di Loira è da tenere sotto stretta osservazione papillare.
Anche nelle immense versioni dolci.
Ma torniamo a noi.
Acidità e verticalità.
Accenni di vegetale e linfatico.
A tratti asciugante.
Minerale di quarzo.
Accattivante.
Un maestrale che si infrange sugli scogli.
Per palati rudi.
Buonissimo.
Bonne degustation



Luigi

sabato 10 marzo 2012

il cielo sopra parigi



Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cielo esista un’altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati della città, e che se la Bersabea terrena prenderà a modello quella celeste diventerà una cosa sola con essa. L’immagine che la tradizione ne divulga è quella d’una città d’oro massiccio, con chiavarde d’argento e porte di diamante, una città gioiello, tutta intarsi e incastonature, quale un massimo studio laborioso può produrre applicandosi a materie prime di massimo pregio. Fedeli a questa credenza, gli abitanti di Bersabea tengono in onore tutto ciò che evoca la loro città celeste: accumulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agli abbandoni effimeri, elaborano forme di composita compostezza.
Credono pure, questi abitanti, che un’altra Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di spregevole e d’indegno, ed è costante loro cura cancellare dalla Bersabea emersa ogni legame o somiglianza con la gemella bassa. Al posto dei tetti ci si immagina che la città infera abbia pattumiere rovesciate, da cui franano croste di formaggio, carte unte, resche, risciacquatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende. O che addirittura la sua sostanza sia quella oscura e duttile e densa come pece che cala giù per le cloache prolungando il percorso delle viscere umane, di nero buco in nero buco, fino a spiaccicarsi sull’ultimo fondo sotterraneo, e che proprio dai pigri boli acciambellati laggiù si elevino giro sopra giro gli edifici d’una città fecale, dalle guglia tortili.
Le città invisibili
I.Calvino
Torino, 1972

giovedì 8 marzo 2012

il cielo sopra parigi




A Parigi c'è una strada;
in questa strada, c'è una casa;
in questa casa, c'è una scala;
in questa scala, c'è una stanza;
in questa stanza, c'è un tavolo;
su questo tavolo, c'è un tappeto;
su questo tappetto, c'è una gabbia;
in questa gabbia c'è un nido;
in questo nido, c'è un uovo;
in questo uovo, c'è un uccello.

L'uccello rovesciò l'uovo;
l'uovo rovesciò il nido;
il nido rovesciò la gabbia;
la gabbia rovesciò il tappeto;
il tappeto rovesciò il tavolo;
il tavolo rovesciò la stanza;
la stanza rovesciò la scala;
la scala rovesciò la casa;
la casa rovesciò la strada;
la strada rovesciò la città di Parigi.

Canzoncina infantile delle Deux-Sèvres
su Specie di Spazi
G.Perec
Torino 1989

mercoledì 7 marzo 2012

hediard paris e lo champagne tutto uguale

Champagne Vouettee Sorbée.
Fidèle.
O della inanità dei sommelier.



Place de la Madeleine.
Hediard.
Mi avvicino allo scaffale su cui poggiano decine di bottiglie della Cuvèe Fidèle di Vouette e Sorbée.
Con due etichette diverse.
Chiedo alla sommelier che cosa significhi.
“Nulla, hanno cambiato etichetta, tanto gli champagne sans année sono tutti uguali”
Uguali? Ma non c’è un minimo obbligatorio di vino del millesimo corrente?
Poi le piccole maison raramente hanno grandi quantità di vins de réserve per tagliare le basi n’est pas?
“No li fanno uguali (uguali ha detto!) tutti gli anni è solo questione di data di dégorgement”
Allora mi dia quello più recente.
Dico così, per dire e per darmi un tono e perché il mio francese non mi permette di innescare una polemica infinita.
25/11/08 non proprio recentissima, chissà l’altro (ma non appuro un po’ per pigrizia un po’ per fretta).
Chiedo se è un assemblage o un Blanc de Blanc o un Blanc de Noir (in etichetta non c’è nessuna indicazione).
“Assemblage” risponde perentoria.
Da quale area della Champagne arriva? (mi sembrava di ricordare fosse dell’Aube).
“La wi-fi non funziona, non posso vederlo.”
Ringrazio pure, pago ed esco.
Torno qualche giorno dopo, controllo che non si aggiri la sommelier e sbircio la data di dégorgement anche dell’altra etichetta.
20/12/09 più recente di quello che mi avevano spacciato come più recente.
Compare un altro sommelier.
Gli chiedo la composizione.
“Blanc de Noir”
Provenienza.
Wi fi sempre fuori uso.
Io sempre più confuso.
Così va la vita.
Anche a Parigi,anche da Hediard.

La cuvèe Fidéle è un Blanc de Noir, extra brut, praticamente e orgogliosamente un millesimato con pochissimo vins de réserve prodotto nell’Aube da Bertrand Gautherot.
Vino di classe cristallina, tagliente, cremoso, pinoteggiante e salmastro.
Sensazioni di lievi ossidazioni su.
Acidità impressionante e.
Raschio citrino.
Per palati selvaggi che amano la potenza del Pinot noir non addomesticata da morbidi zuccheraggi.
Non fatevelo mancare.
Bonne degustation


 
Luigi


martedì 6 marzo 2012

il cielo sopra parigi



Obliqua la luce del sole
nell'estate prolungata
nell'aria fresca le ombre lunghe
in pieno pomeriggio
sono blu
piene di cielo crudo
...


Le scimmie sono involontariamente uscite dalla gabbia
Dario Voltolini
Roma 2006

lunedì 5 marzo 2012

una mela al giorno

Un post veloce veloce per parlare di Sidro metodo ancestrale Maley.



Da meleti* centenari della Valle d’Aosta.
I meleti, anche solo singoli eroici meli, in tutto l’arco alpino si arrampica(va)no e fruttifica(va)no sino ad altitudini proibitive milletrecento metri e più.
Qualche pianta residuale si incontra ancora mista a peri e ciliegie e prugne lungo le strade di servizio ai campi.
In Valle d’Aosta hanno recuperato meleti e tecnologia per ottenere.
Dalle mele Raventze e Coison de Boussy con aggiunta di pere Blesson.
Spremute nella distilleria di Novalaise, fermentate con lieviti indigeni sino a 2,5%vol.
E poi imbottigliate per proseguire la fermentazione sino a 4,5%vol.
Un sidro profumatissimo e inebriante.
Bevanda antica quanto la birra e più del vino.
Mela in purea, violetta e leggerissimo ma intrigante sentore di champignon.
Arancia.
Morbidissimo e fresco.
Lieve residuo zuccherino.
Masticabile.
Impossibile non finire la bottiglia.
Intrigante abbinamento nella cucina zenzerosa e profumata dei ristoranti asiatici o fusion.
Aperitivo godurioso.
Glu glu va giù
Bonne degustation

Luigi



Bottiglia avuta in gradito omaggio da Simone Morosi.

*Spesso i meleti dedicati alla produzione di sidro e distillati utilizzavano varietà di mele molto simili a quelle selvatiche, spesso propagate per seme, i cui frutti sono immangiabili perché piccoli e acidi e amari e duri ma perfetti a saperli miscelare per le fermentazioni e le distillazioni.