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lunedì 30 gennaio 2012

_chi è l’amico delle ossidazioni? parte VI°_

L’eleganza di pratiche desuete.   


Le ossidazioni sono territorio o no?
Le ossidazioni sono una spasmodica ricerca di un profilo organolettico antico che si ritiene mitico e migliore
del presente, sono un tentativo di santificazione delle tecniche pre-enologiche?
Oppure sono una fuga dal pressing asfissiante dei tecnici ossessionati dai controlli, dalle analisi, dalla piatta mediocrità standardizzata del gusto attuale.
Io trovo che siano vini preindustriali, vini alimento, bevibili a temperatura  ambiente.
C’è chi sostiene che non sappiano di vino (cioè di quell’idea stereotipata che del vino ci siamo fatti negli
ultimi venti anni).
C’è chi sostiene che omologhino i sapori al pari del legno.
L’ossidazione non è un processo di stabilizzazione fisico chimica del vino?
Che la tecnica enologica contemporanea sopporta a stento e solo se relegata in nicchie produttive, meglio
se naif.
Oggi si parla di riduzione, ossidazione controllata con candele in ceramica porosa, di temperature controllate
per preservare il frutto, la freschezza, la mineralità.
Ma il frutto è figlio del territorio o è il sottoprodotto fermentativo dei lieviti selezionati in compartecipazione
con il vitigno e i suoi precursori aromatici?
Quindi lontanissimo dal concetto di terroir e dalla sua irriproducibilità tecnica?
La flor non è un consorzio microbico irriproducibile al di fuori del suo contesto ecologico?
Le ossidazioni non avvengono con modalità uniche, dettate dal complesso embricarsi di condizioni
climatiche locali e il vino?
Le tecniche ossidative sono spesso dei modus operandi inscindibili dal territorio e dal milieu eno-agricolo
che le ha inventate e affinate.
E per questo sono Terroir nella visione più dichiaratamente antropocentrica.



La gestione di processi ossidativi ben condotti non può che arricchire il vino inserendo quel quid di mondanità e lieve imperfezione ad un prodotto vivo.
Max Lèglise sostiene che l’ossidazione non è indifferente al substrato che viene ossidato per cui solo grandi vini possono sopportarla e giovarsene.
E’ verificabile che i vini ossidati abbiano una complessità aromatica maggiore e una incredibile tenuta all’esposizione all’aria dopo la stappatura.
Quindi nell’attuale processo di ridiscussione degli apporti di solforosa, nella ridefinizione delle tecniche fermentative, l’ossidazione può e deve di diritto rientrare nei processi produttivi non solo nei vini tipicamente ossidati ma anche nei vini normali.
Oggi aggiungo allo sproloquio un vino da bere leggendo il mio post (e maledicendomi) e sbocconcellando pezzetti di Comtè d’étè.
Un Savagnin 2005  Aoc Cotes du Jura di Ganevat il Cuvèe Prestige.
Arriva dritto dritto dallo Jura.
Le radici hanno prelevato le acque salmastre delle saline di Salins-les-bains.
La flor si è riprodotta fra le rocce della cantina e all’aria delle foreste di La Chaux.
L’acidità lo sostiene e ne rinfresca il corpo.
Ossidato ma senza mollezze.
Quasi tannico.
Affilato ma deciso in bocca.
Sferzate saline, di noci immature, speziature si incrostano sui bordi del bicchiere.
Buonissimo, infinito nella intensità e nella lunghezza delle percezioni.
Dannatamente scarso nella bottiglia.
Ed io mi scopro a sognare ad occhi aperti la processione delle salmerie che portavano il sale, equivalente in denaro ad oro puro, in tutta Francia scortate dalla cavalleria impennacchiata.
Bonne degustation



Luigi

Degustato con Tirebouchon e qualche ostrica.

venerdì 27 gennaio 2012

_agricoltura alto artigianato_

Agricoltura, attività di alto artigianato.
foto Stefania Giardina

E’ un periodo, infausto e litigioso, in cui si affronta, nei blog soprattutto, il biologico nel mondo del vino come un fenomeno a la page, figlio di comportamenti alla moda, transitori e vacui e si perde di vista l’elemento fondante che è il progressivo depauperamento dell’humus, della vitalità della terra.
Il ritorno a pratiche delicate, rispettose e che abbiano come tema centrale il suolo e la sua complessità microbiologica sono ormai una necessità per la sopravvivenza dell’agricoltura stessa.
Le pratiche colturali odierne vedono il suolo come un substrato inerte che non merita attenzione.
Non sono io a dirlo ma esperti microbiologi e agronomi che stanno avvertendoci della progressiva perdita ponderale e qualitativa del consorzio microbico.
“Quasi tutte le piante del mondo sono associate a micorrize, con l’eccezione di alcune specie litoranee che crescono su suoli salati in cui questi funghi non vivono.(…) Le altre specie coltivate (in particolare l’aglio ndr) sono fortemente associate a tali funghi simbionti. Ignorando queste associazioni sottili, l’agro-industria incoraggia gli agricoltori a spargere massicciamente i superfosfati sui suoli coltivati. Ora, questi concimi (e i diserbanti ndr) industriali distruggono le micorrize, rendendo così le piante coltivate dipendenti dai concimi, un po’ come un drogato che non può più fare a meno della sua droga. La distruzione del mondo dei funghi da parte dei superfosfati è, con l’aratura e l’irrigazione, uno dei fattori che uccidono la vita dei suoli. I funghi rappresentano come peso, i due terzi dei microbi del suolo. Essi decompongono la lettiera in humus, nutrono le piante di fosfato e servono da alimenti a numerosi micro-artropodi del suolo. La loro scomparsa nei campi soggetti a coltura intensiva comporta la lenta estinzione biologica dei suoli, il loro ingresso in una dinamica di morte.” C.e L. Bourguignon, “Il suolo un patrimonio da salvare”, Bra, 2004.
Le micorrize e il complesso rapporto che instaurano con i vegetali determinano, in qualche misura ancora da verificare con certezza, certe specificità dei prodotti.
Certi sfumature organolettiche territoriali, dai peperoni ai cardi alle uve, non si spiegano solo con la pedologia ma paiono esserci nuovi orizzonti di comprensione nel lavoro dei microbiologi che stanno studiando le interferenze dei microbi sul dna delle piante sia nelle radici sia nella parte aerea.

foto Stefania Giardina


Il territorio agricolo (tralasciando quello naturale oramai assediato e parcellizzato dalle infrastrutture), al di là delle fascinazioni agresti di noi cittadini biofighetti, è fortemente inquinato, lisciviato e prossimo alla morte biologica, alla desertificazione e da questo girone dantesco non sfuggono gli allevamenti di bestiame che generano altissimi costi sociali quali inquinamento, maltrattamento degli animali, consumo di energie non rinnovabili, molto più elevati della ricchezza che generano.
I cui costi sono trasferiti sulla società, sul territorio.
Ogni boccone di cibo che mandiamo giù è un boccone intriso di petrolio e credo sia un dovere nostro parlarne, anche correndo il rischio che una frangia disattenta di lettori abbia derive modaiole e che alcuni ossessionati dal “metodo scientifico” ci spieghino con violenza verbale che le nostre parole non sono figlie del “metodo” ma solo del mondo naif delle sensazioni e della cultura umanistica.
L’altro giorno Lucia Galasso antropologa mi ha fatto notare la centralità dell’uomo nella produzione enologica che è, e bisogna rimarcarlo con forza, una pratica eminentemente umana figlia di un approccio umanistico, agricolo, sociale, magico, religioso.
Per estensione anche l’agricoltura, prima che una presunta scienza agroalimentare, è una attività multi esperienziale, empirica che nel bene e nel male ci ha traghettato fino ad oggi.
Sempre Lucia si chiedeva come mai il periodo prenovecentesco (prescientifico) sia visto oggi come momento buio della evoluzione umana, come terra delle streghe e delle superstizioni, dimenticando che tutto ciò che mangiamo è stato selezionato, allevato in epoche molto precedenti alla nostra la quale, con l’ansia della produzione, della scienza e della “normalizzazione” sta depauperando la grande biodiversità ereditata.
Io non sono orgoglioso della mia contemporaneità e voi?
In ultimo, senza pretesa di universalità dogmatica, mi è capitato fra le mani questo passo di A.Martini su “Microbiologia del vino”  testo curato da M.Vincenzini, P.Romano, G.A.Farris, il quale dice nel capitolo Ecofisiologia dei lieviti vinari: …”Gli stessi lieviti secchi attivi (LSA) commercializzati a livello mondiale oggi sono prodotti da una sola ditta che ha praticamente conquistato il mercato internazionale e derivano in gran parte dai due lieviti originalmente proposti a Davis in California: ceppo “Montrachet” e ceppo “Champagne”.

Vedremo in dettaglio che la nicchia ecologica occupata da S. cerevisiae non è naturale ma tecnologica, in quanto rappresentata da tutte le superfici interne della cantina. E vedremo anche che i ceppi isolati nelle cantine mostrano prestazioni di gran lunga analoghe se non superiori a quelle dei migliori ceppi selezionati del commercio.”
Quindi è  lecito chiedersi e chiedere con quale lievito sono state condotte le fermentazioni o no?

foto Stefania Giardina


Infine mi chiedo che fastidio dà un piccolo manipolo di produttori e consumatori, numericamente esiguo che ha deciso di affrontare la produzione agricola con parametri diversi.
Sbagliano?
Sono a-scientifici e reazionari?
Sono dogmatici e irrazionali?
Anche lo fossero, non sono socialmente pericolosi, espongono solo il loro dubbio e il loro legittimo disaccordo verso visioni più commerciali, normalizzate, scientifiche dell’enologia e dell’agricoltura.
Credo ci sia spazio per tutti anche per chi sbaglia o dissente, per chi non vuole conformarsi ed esercita il proprio diritto alla libertà di pensiero.
Non credo sia appropriato né democratico né intelligente tentare, con la forza, di ricondurre i dissenzienti al comune pensare.
Agricoltura alto artigianato.


giovedì 26 gennaio 2012

_alberi_



“Trout aveva scritto un libro su un albero che faceva i soldi. Aveva come foglie dei biglietti da venti dollari. I suoi fiori erano titoli di stato. I suoi frutti erano diamanti. Attirava gli esseri umani, che si ammazzavano tra loro intorno alle sue radici e così diventavano un ottimo fertilizzante.
Così va la vita.”
K. Vonnegut , Mattatoio n°5, 1968

mercoledì 25 gennaio 2012

scaccialupo 2006 barbera igt PV sacrafamilia #vinicolki

Scaccialupo 2006, Barbera Oltre Po’ Pavese, Sacrafamilia



Ho voluto, volontariamente, ignorare il complesso incipit di Mercandelli sui vini biotici.
Volevo che fossero le sensazioni, le percezioni a parlare.
Non quel fascinoso mondo alchemico, spirituale, magico che traspare dagli scritti sul sito e dall’articolo comparso su Porthos 35.
So che esiste tutto ciò ed è stato il motore primo che mi ha spinto alla ricerca del vino.
Però poi la bottiglia era lì sola sul tavolo.
Con la sua grafica molto cool e intrigante.
Ma non c’era un corpus teolologico che l’introducesse.
Solo il vociare degli avventori e il parlare esotico di tre ragazze giapponesi.
Il vino nei bicchieri.
La mano sullo stelo.
I profumi che uscivano.
Impetuosi direi e fascinosi e mutevoli.
Forse anomali e mi tornavano in mente le parole di Mercandelli.
“Le mie vigne fotografano terra e cielo (vado a memoria)”.
Immaginavo me stesso sdraiato tra i filari e gli occhi puntati verso il cielo.
Calore e sapido di terra e radici di genziana o rabarbaro o china (decidete voi).
Si intrecciano in un costrutto solido, masticabile.
L’amarognolo mitigato da dolcezze di acino fresco con la sua buccia linfatica.
Una corsa parallela.
L’officinale e le spinte eteree quasi da bottega di erborista.
Lunghissimo e goloso.
Elegante.
Impossibile fermarsi nella bevuta.
Vittorio Rusinà lo ha proclamato vino col KI.
Unico residuale dubbio il prezzo non proprio economico.
Però abbiamo speso di più e per vini peggiori.
E poi io di posizionamento e marketing ne capisco poco e quel poco che intuisco, bevo per dimenticarlo.
Ringrazio il ristorante Consorzio per averci ospitato, sfamato concedendoci chicche casearie delle terre d’Albione e anteprime culinarie e per averci sopportato sino a mezzo pomeriggio.
Bonne degustation

Luigi

Vino acquistato sul sito Palatifini a 69,00 euro, sito dal quale mi rifornisco, da anni oramai immemori, di un pesto da campionato del mondo.
Adesso vado a rileggermi i “vini biotici” e l’articolo portosiano.




lunedì 23 gennaio 2012

terre eteree 2008 emilio falcione maremma

Terre Eteree 2008 Igt Maremma Toscana, Sangiovese e Ciliegiolo, La Busattina di Emilio Falcione.



Produttore con la fissa della biodinamica e della azienda agricola a ciclo chiuso.
Con i tempi che corrono caratterizzati da una accanita caccia alle streghe e un filoscientismo al limite del fondamentalismo e una incrollabile fiducia nelle parole e nei prodotti delle multinazionali oramai diventate sacerdotesse laiche e una industrializzazione massificata dei cervelli.
Ho quasi timore nel dire che da anni, molti anni, Emilio Falcione è un contadino che sostiene la necessaria difesa, anzi l’autodifesa della cultura agricola e del passaggio dalla agricoltura convenzionale a quella organica per arrivare infine a quella biodinamica.
Dagli anni ottanta sente imprescindibile l’obbligo morale di sganciarsi dalla schiavitù verso le industrie chimiche “Anziché attingere esclusivamente alla fonte solare, l’umanità ha iniziato a bere i primi sorsi di petrolio” M. Pollan.
Emilio vuole ritornare all’humus, alla vitalità della terra.
Venti ettari dedicati all’allevamento di capre, suini, asini, galline, pecore, olivicoltura, seminativo e cinque alla viticoltura con varietà tipiche pressochè a ciclo chiuso.
Ha anche la fissa della preservazione di antiche varietà cerealicole, orticole e animali (anche questo argomento è diventato come fumo negli occhi per gli scienziati e i loro apostoli che lo vedono come bieco comportamento reazionario e antimoderno).
Le oche pascolano tra i filari insieme alle pecore e alle capre.
Molto cool.
Però mi dicono funzioni benino come diserbo, oltretutto a impronta carbonica zero e concimazione gratuita.
E’ un anno che avevo comprato questo vino che è a base di Sangiovese e Ciliegiolo.
Non mi decidevo ad aprirlo riponevo molte speranze e non volevo avere sorprese, poi ho deciso così senza pensarci su.
Il Ciliegiolo mi raccontano alleggerisce il corpaccione surmaturo e ridondante del Sangiovese di maremma.
Macerazioni lunghe e affinamenti in barrique usate.
Per un vino ruspante.
Il mio era ridotto all’inizio.
Ho pazientemente aspettato, non pochissimo devo dire.
Dopo di che è esploso con forza.
Profumi scoppiettanti sempre condotti sul filo instabile della rusticità educata.
Terroso di humus e di champignon con la viola e le ciliegie sotto a spingere.
Bocca leggermente ruvida e vegetale ingentilita da una dolcezza di fiori e frutta.
Spremuta di ciliegie e caramelle alla viola-liquerizia (che da noi in piemonte si chiamano” butun del preive” bottoni del prete).
Succoso.
Mutevole, mai fisso, altalenante fra eleganza e understatement.
Bel vino e, credo, bella espressione del territorio.
Bonne degustation


Luigi

giovedì 19 gennaio 2012

dell'aporia_delle_guide_


Dell’aporia delle guide.
Con un tempo mio.
Con un ritmo tutto interno alle dinamiche sconosciute e apparentemente casuali del mio cervello.
Ho avuto modo di ripensare alle Guide e alla loro aporia.
Al loro essere per definizione paradossali.
Gli estensori delle Guide si pongono degli obiettivi ambiziosi e impossibili come quello di rendere cartaceo e narrativo lo spazio reale, geografico, di essere onnicomprensivi e super partes, di raccontare le dinamiche umane e territoriali, insomma perseguono il tentativo impossibile di rendere “finito” ed esperibile con la lettura l’”infinito” proteiforme della realtà.
Guida nell’accezione della lingua italiana ha implicito il concetto di percorso o di strumenti che permettono di compiere un percorso.
Un percorso per sua natura è una sequenza lineare e temporale che impone scelte di navigazione.
Un percorso non può includere la totalità dello spazio quadrimensionale.
La Guida inoltre incappa in un altro problema, quello della traduzione linguistica della realtà e del suo congelamento temporale, non può che cogliere e fissare degli attimi e sancirne in modo innaturale il loro immobilismo estrapolandoli dal continuum spazio temporale.
La realtà sfugge alla catalogazione, il territorio sfugge anch’esso ad ogni rappresentazione onnicomprensiva (e ne sanno qualcosa i cartografi), il fare umano è irriducibile alla sua narrazione (ancor più se si pretende che sia oggettiva).
Una Guida è pensata da soggetti esterni alle realtà analizzate e questo crea ulteriori fenomeni di interpretazione selettiva e influenze sugli osservati, modificando di fatto la naturalità degli eventi, l’osservatore modifica l’osservato.
L’osservato, poi può avere interessi, anche forti, nel comparire in una Guida e applicare strategie al fine di comparirci.
Non è possibile immaginare una Guida imparziale, ogni operazione di catalogazione è una interpretazione degli oggetti catalogati.
Le Guide quindi sono lo specchio non della realtà, questa è una illusione infantile, ma delle scelte operate dai redattori, sono interpretazioni del mondo con inevitabili scelte di campo e classifiche di merito.
Su questi palinsesti noi lettori sovrapponiamo i nostri paesaggi mentali, le nostre preferenze, idiosincrasie, la nostra soggettiva visione del mondo.
Per cui non saremo mai pienamente soddisfatti e aleggerà sempre una sensazione di tradimento, di incomprensione.
Perché la Guida è una narrazione e non uno strumento conoscitivo.Perché il mondo non è unico ma esistono migliaia visioni possibili e soggettive di esso.
Perché i vini come le persone che li fanno hanno una loro vita al di là delle pagine di una Guida.
Perché il tempo non si può fermare.
Perché lo spazio non può essere raccontato.

“Viaggiare, come raccontare - come vivere - è tralasciare. Un mero caso porta a una riva e perde un’altra.”
Claudio Magris, Microsmi.




mercoledì 18 gennaio 2012

_Dioniso_o_della_fermentazione_vitale_

Foto di Stefania Giardina

“…Il vino non è solo una dose di alcol o una bevanda mista: è una trasformazione dell’uva e il cambiamento dell’anima sotto la sua influenza non è che la continuazione di un’altra trasformazione iniziata, magari tempo prima, quando l’uva è stata staccata dalla vite (è anche per questo che, secondo i Greci, la fermentazione è opera di un dio. Dioniso entra nell’uva, la trasforma e questa trasformazione passa poi in noi quando beviamo). Noi sappiamo che nella trasformazione è coinvolta una capacità umana, ma si tratta di una capacità di natura diversa da quella del miscelatore di cocktail: è alto artigianato e il suo risultato è, in una certa misura, un tributo non solo all’abilità del coltivatore e del vinificatore ma all’intero processo etologico che ci ha trasformati da cacciatori e raccoglitori in agricoltori (e di cui, forse, c’è un eco nell’episodio dell’ubriachezza di Noè).”

Roger Scruton, "Bevo dunque sono. Guida filosofica al vino".

martedì 17 gennaio 2012

ecologia_sovversiva_

Foto Stefania Giardina
L'ecologia è sovversiva perché mette in discussione
l'immaginario capitalista dominante.
Ne consegue l'assunto fondamentale secondo cui il nostro
orizzonte è il continuo aumento della produzione
e dei consumi.
L'ecologia mette in luce l'impatto
catastrofico della logica capitalistica sull'ambiente
naturale e sulla vita degli esseri umani.

Cornelius Castoriadis

venerdì 13 gennaio 2012

poderi sanguineto UNO e DUE montepulciano forsoni

Rosso di montepulciano Doc 2009, Poderi Sanguineto I e II di Dora Forsoni, Montepulciano (SI).
 

Curioso come una scimmia lo apro e
scivola come seta e manda vampate di aromi
come una drogheria di una volta.
Quelle che tenevano la porta aperta davanti alla primavera.
I profumi spingono come ciclisti gregari in fuga
e il vino va avanti sempre più affondato nell’aria.
Ricco, ridondante.
Snello e vivace.
Scende elegante, decolla.
E assapori il soffio di liquerizia, di viola, di ciliegia, di cuoio, di afrore coloniale.
Di frutti così intensi che stordiscono.
Moderno e antico.
Lucido e fluido.
Caldissimo e senti il ventilatore ronzare immenso dal soffitto esausto.
Così buono che ti chiedi cosa potrà mai essere il Nobile e il Nobile riserva.
E non hai il coraggio di aprirli.
E’ un mondo adulto si sbaglia da professionisti.
Bonne degustation


Luigi

*Il testo è ispirato più o meno liberamente a “Boogie” di Paolo Conte.
Bevendo sentivo ossessivamente le note della canzone ritmata, ipnotica, terribilmente agè, così fuori moda da diventare icona.
**cuoio e afrore coloniale sono concessioni poetiche.
***scrivendo poi è comparsa una seconda canzone che mi ha ipnotizzato “Butterflies drowned in wine” di Smog ambienti lunari e dissoluzioni nel nulla esistenziale in salsa boogie.




mercoledì 11 gennaio 2012

_champagne demi-sec Yves Ruffin_

ChampagneYves Ruffin, Premiere cru, Demi Sec elaborè en foudre de Chene à Avenay Val d’Or.


Nell’epoca della riproducibilità elettronica delle mode.
Che anch’io, mio malgrado cavalco e subisco.
Mi sono ubriacato di Pas Dosè, Dosage Zero, Brut Nature, Extra Brut.
Buoni, buonissimi.
Territorialissimi, si sente la maturazione delle uve au point.
Però mi sono chiesto.
I tanto vituperati Demi Sec e gli ormai scomparsi Doux.
Dove sono, come sono, cosa ci perdiamo? In nome dell’ennesima crociata effimera e bizzosa.
Ogni esaltazione del nuovo ha in sè l’oblio e la mortificazione del diverso, dell’altro.
Allora sono andato alla ricerca del negletto e l’ho trovato in perfetta forma, neanche conscio di essere dai più additato come traditore della champagnità, era lì sullo scaffale vicino al fratello extra brut.
Io ci ho pasteggiato,
come aperitivo era formidabile né troppo secco né troppo morbido grande interprete della medietà positiva, tranquillizzante e salvifica,
sulle ostriche il lieve dolce stemperava la salinità imperiosa accompagnando la grassezza delle carni.
Sul pane nero imburrato esaltava le rotondità untuose e aromatiche.
Sino al panettone dove trionfava nell’estenuarsi citrino dei canditi.
Quanti hanno mai bevuto uno Champagne Demi sec?
Per questa esperienza ho utilizzato un bio-Champagne della prima ora.
Affinato in legno grande.
E’ affilato e aristocratico come quelle stupende katana giapponesi.
Morbido e largo al naso e per un nano secondo anche in bocca.
Poi ti punisce e pizzica di citrino.
Poi riblandisce con velluto finale.
Elegante il giusto.
Ruvido il giusto.
Perfetto sempre, soprattutto quando bere non è solo un aspetto culturale ammalato di alternatività e antagonismo ma anche un piacere un po’ scollacciato, sensuale e insieme infantile, semplice.
Mai mancherà un demi sec dalla mia cantina.

 “grappoli colti
sfiorati dalla brezza
scorgo il futuro”

 Haiku n°2, Sorsi di Haiku. 37 haiku sul vino, Slawka G. Scarso

Bonne degustation

Luigi


lunedì 9 gennaio 2012

KIDO-ism_Takashi_Kido_ristofiusion_aTorino

KIDO-ism
C.so Rosselli 54/a, Torino.

Quando un’enostrippato va a cena fuori.
Su indicazioni gentili ma pressanti mi viene consigliato un ristorante fiusion.
Fiusion…fiusion chè?
Beh il cuoco è giapponese ed è transitato per le cucine stellate Madrilene!
Tentano di spiegarmi.
Consulto la Treccani (ormai tutti clikkano su wikipedia, invece a me piace il contatto carnale con la cellulosa).
Fiusion vuol dire infilare la tradizione e le tecniche di cucina europee e orientali nel mixer e poi frullare a velocità più o meno alta sino alla più o meno completa fiusion degli elementi.
Era un po’ che non sentivo la parola fiusion e poi a Torino credo che l’abbiano usata cinque o sei persone, forestiere per giunta.
Guidando nella notte limpida (non ci sono più le nebbie di una volta) pensavo:
”Sarà una cucina fiusion come tutte le cucine nazionali ad esempio il tempura che noi crediamo essere una tecnica di cottura giapponese antica.”
“Invece deriva dal menù di magro dei frati portoghesi settecenteschi durante il digiuno delle “ quattro tempora””.
“Oppure nel sushi i famosissimi roll sono recenti, nati negli anni settanta in California USA per avvicinare il pesce crudo al gusto americano.”
Per non parlare della cucina europea e del pomodoro, il basilico, il timo, l’origano, il pistacchio, le melanzane, le arance, i limoni, i fagioli, i peperoni, le patate, l’uva, il cacao, lo zucchero, il caffè, il tacchino, la faraona tutti ingredienti introdotti nei secoli, provenienti da regioni lontanissime.
Per non parlare del croissant simbolo della Francia dolciaria che fu inventato a Vienna da un pasticcere Polacco per festeggiare la vittoria contro i Turchi, da cui la forma a mezzaluna, portato a Parigi da una principessa  Austriaca.
Per non parlare del bianco mangiare Siciliano figlio della farmacopea medioevale diffusa ed insegnata da Avicenna (Persiano) e poi in Europa dalla Scuola di Salerno.
Dopo mangiato nel torpore post prandiale mi è venuto in mente questo passo di Muriel Barbery in Estasi Culinarie:
“La cucina è diventata arte grazie a una continua elaborazione, alla mescolanza di passato e futuro, qui e altrove, crudo e cotto, salato e dolce, e può continuare a vivere solo liberandosi dall’ossessione di chi non vuol morire…”
Voilà, fiusion è la Cucina proprio per sua intrinseca attitudine.
Quindi sono andato in un ristorante punto e basta!
Fiusion lasciatelo dire ai fighetti che devono comunicare con giusto quelle dieci, dodici parole ad effetto.



KIDO-ism
Ricomincio da capo.
L’ho trovato da un punto di vista ambiental-arredo-illuminazione un po’ freddo.
Mi dicono: è freddo perché è fiusion.
Io dico: ogni tanto chiamate degli architetti per arredare i locali e non appellatevi a discolpa alle mode imperanti!
Non costringetemi a elencare bellissimi ristoranti fiusion (persino a Torino) con arredamenti superbi e ambienti più conviviali.



KIDO-ism
Servizio in sala, gestito come in un ristò serio, quindi un po’ freddino anche lui.
Mi ridicono: perché è fiusion, anzi Takashi Kido ( il cuoco) è già un gran espansivo per essere giap.
Io dico: mah!
KIDO-ism
Mi dicono: la carta dei vini è il suo punto debole.
Io dico: no!
E’ piccola ma con etichette sfiziose, si può e si deve ampliare ovviamente, ma nel mucchio c’è parecchio da pescare e a prezzi buoni.
Io ho bevuto un ottimo Teroldego 2008 di Elisabetta Foradori.


KIDO-ism
Poi ho mangiato.
E devo dire che non mi emozionavo al desco da parecchio tempo.
Ebbene Takashi Kido mi ha sferzato le indolenti trippe.
E mi è spuntato un sorriso di appagamento ad ogni portata e leggero fibrillo in attesa del piatto seguente.
Che ha sempre superato o eguagliato il precedente.
Per i tassonomici metterò al fondo la lista completa del menù da noi scelto.
Io ho mangiato avidamente il riso con foie gras e quaglia, una lacrima cadde sul tovagliolo di lino.
Altrettanto avidamente il raviolo di tofu con acqua di pomodoro (consistenza collosa, intrigante) e prosciutto di San Daniele.
Sacher alla moda di Takashi, per me numero uno!
Se al termine di questo delirio ci andrete,
liberate la mente
dimenticate cosa mi è piaciuto o no
cancellate fiusion, giappone, spagna, italia dal vostro cervello
e godetene da soli con i vostri compagni di avventura ‘chè il cibo è un rito che unisce nella convivialità.



KIDO-ism
Eroico aprire un locale così a Torino, in Crocetta (solo chi è indigeno può capire).
KIDO-ism
Abbiamo mangiato
Menù di terra al prezzo di 50,00 euro.
Steak tartare di fassone con uovo di quaglia e sorbetto di mela.
Uovo cotto a bassa temperatura con crema parmantier e chorizo.
Ravioli con farcia di tofu, acqua di pomodoro e prosciutto san Daniele.
Risotto con quaglia e foie gras.
Filetto di vitello con pannocchie baby, gelatina di peperone e tocco di wasabi (di nuovo in consistenza collosa).
Sacher torte con cioccolato fondente, arancia e gelato al latte di soia.




KIDO-ism
Così, dopo essermi a lungo spremuto le meningi su questo post (scriverlo o non scriverlo e cosa dire e cosa non dire) mi è passato per le mani questo libro di Ito Ogawa.
“Così, dopo essermi a lungo spremuta le meningi, avevo optato per una soluzione più audace: dare chiara espressione ai sentimenti e alle emozioni attraverso il cibo, preparando piatti dal gusto armonioso e al tempo stesso forte e stimolante. Intendevo in altre parole esaltare le note dolci negli alimenti di per sé dolci e quelle piccanti negli alimenti di per sé piccanti.
Volevo che la Concubina gustasse i sapori che il suo palato non aveva mai sperimentato prima. Volevo preparare dei piatti che rianimassero le sue cellule in stato di morte apparente, come una sveglia mattiniera…” Ito Ogawa, il ristorante dell’amore ritrovato, Vicenza, 2010.
KIDO-ism
Ci sono andato su segnalazione di Gil Grigliatti in primis e poi di Stefano Cavallito, Alessandro Lamacchia autori della guida I Cento di Torino e Piemonte.




giovedì 5 gennaio 2012

e sarò pane e sarò vino gianfranco Manca nurri

Ho inaugurato.



Con il precedente, una serie di post dedicati alla memoria.
Anzi all’oblio.
Di vini che mi sono piaciuti.
Ma che non ho schematizzato.
Perché non ho avuto tempo, voglia, per naturale repulsione alla tassonomia.
Perché credo molto poco allo sciorinare esausto dei profumi.
Tantomeno alla pornografia delle classifiche e dei voti di merito.
Una sera a cena.
Due vini in sequenza.
Un bianco e un rosso.
Buonissimi, caldi e ruvidi.
Esagerati e intimi.
Hanno accompagnato anguilla, cardi e fonduta.
Agnello e rolatine di coniglio con ripieno di trippa di agnello.
Formaggi.
Hanno accompagnato il chiacchierare convulso e ingordo di amici lontani.
Con tante cose da dirsi e troppo poco tempo.
Bevuti prima in sequenza, poi alternati.
Poi altri vini sono comparsi, altre regioni d’Italia.
Però dei primi voglio parlare oggi, così per caso, per sfizio, per sanare un debito di riconoscenza.
Un debito recente e uno della mia infanzia.
Verso la Sardegna che per me è l’isola che non c’è.
Utopia.
Luogo mitico, sede dei miei sogni infantili.
Poi adolescenziali.
Panevino, “ Alvas” bianco isola dei nuraghi igt 2008.
Panevino, “Però. vigne vecchie”  rosso 2008.
Scaldano il cuore.
Come le madeleine portano in superfice memorie.
E intravedo rocce calcaree cotte dal sole e il profumo caldo e ruvido della macchia e della polvere.
Profumo di Pabassinas e Pistoccheddus
e di persone ormai lontane
e di persone vicine.


Luigi

ps
Se qualche oste illuminato li ha in carta, non perdeteveli.
Grafica molto bella a mio avviso.
Bisognerà organizzare un concorso sull'etichetta più cool.
Al più presto.


martedì 3 gennaio 2012

_gaia 2008 igt campania Fiano giardino_

Gaia, Campania Fiano Igt  2009, Cantina Giardino, Ariano Irpino  


Ho bevuto.
Questo liquido opalescente.
Poi.
Ho cercato di dimenticare.
Cosa fosse.
Da dove provenisse.
Che faccia avesse il vignaiolo.
E le persone che erano con me.
Ho provato a dimenticarne anche il sapore.
Per distillare come alchimista l’essenza.
Per trascendere l’aridità dell’ossessiva ricerca di profumi,
appuntati come a scuola su quadernetti meschini.
Per dirvi che è il vino che vorrei bere con voi.
Parlando e ridendo.
Soffocando di risa.
Piangendo di rabbia.
Vino.
Non certo l’unico,
né il migliore,
ma quello che vorrei sempre avere per scaldare il cuore.

“al terzo sorso
s’apre l’animo incerto
magia del vino”

Haiku n°24, Sorsi di Haiku. 37 haiku sul vino, Slawka G. Scarso

Luigi