Le ossidazioni sono territorio o no?
Le ossidazioni sono una spasmodica ricerca di un profilo organolettico antico che si ritiene mitico e migliore
del presente, sono un tentativo di santificazione delle tecniche pre-enologiche?
Oppure sono una fuga dal pressing asfissiante dei tecnici ossessionati dai controlli, dalle analisi, dalla piatta mediocrità standardizzata del gusto attuale.
Io trovo che siano vini preindustriali, vini alimento, bevibili a temperatura ambiente.
C’è chi sostiene che non sappiano di vino (cioè di quell’idea stereotipata che del vino ci siamo fatti negli
ultimi venti anni).
C’è chi sostiene che omologhino i sapori al pari del legno.
L’ossidazione non è un processo di stabilizzazione fisico chimica del vino?
Che la tecnica enologica contemporanea sopporta a stento e solo se relegata in nicchie produttive, meglio
se naif.
Oggi si parla di riduzione, ossidazione controllata con candele in ceramica porosa, di temperature controllate
per preservare il frutto, la freschezza, la mineralità.
Ma il frutto è figlio del territorio o è il sottoprodotto fermentativo dei lieviti selezionati in compartecipazione
con il vitigno e i suoi precursori aromatici?
Quindi lontanissimo dal concetto di terroir e dalla sua irriproducibilità tecnica?
La flor non è un consorzio microbico irriproducibile al di fuori del suo contesto ecologico?
Le ossidazioni non avvengono con modalità uniche, dettate dal complesso embricarsi di condizioni
climatiche locali e il vino?
Le tecniche ossidative sono spesso dei modus operandi inscindibili dal territorio e dal milieu eno-agricolo
che le ha inventate e affinate.
E per questo sono Terroir nella visione più dichiaratamente antropocentrica.
La gestione di processi ossidativi ben condotti non può che arricchire il vino inserendo quel quid di mondanità e lieve imperfezione ad un prodotto vivo.
Max Lèglise sostiene che l’ossidazione non è indifferente al substrato che viene ossidato per cui solo grandi vini possono sopportarla e giovarsene.
E’ verificabile che i vini ossidati abbiano una complessità aromatica maggiore e una incredibile tenuta all’esposizione all’aria dopo la stappatura.
Quindi nell’attuale processo di ridiscussione degli apporti di solforosa, nella ridefinizione delle tecniche fermentative, l’ossidazione può e deve di diritto rientrare nei processi produttivi non solo nei vini tipicamente ossidati ma anche nei vini normali.
Oggi aggiungo allo sproloquio un vino da bere leggendo il mio post (e maledicendomi) e sbocconcellando pezzetti di Comtè d’étè.
Un Savagnin 2005 Aoc Cotes du Jura di Ganevat il Cuvèe Prestige.
Arriva dritto dritto dallo Jura.
Le radici hanno prelevato le acque salmastre delle saline di Salins-les-bains.
La flor si è riprodotta fra le rocce della cantina e all’aria delle foreste di La Chaux.
L’acidità lo sostiene e ne rinfresca il corpo.
Ossidato ma senza mollezze.
Quasi tannico.
Affilato ma deciso in bocca.
Sferzate saline, di noci immature, speziature si incrostano sui bordi del bicchiere.
Buonissimo, infinito nella intensità e nella lunghezza delle percezioni.
Dannatamente scarso nella bottiglia.
Ed io mi scopro a sognare ad occhi aperti la processione delle salmerie che portavano il sale, equivalente in denaro ad oro puro, in tutta Francia scortate dalla cavalleria impennacchiata.
Bonne degustation
Luigi
Degustato con Tirebouchon e qualche ostrica.